“C’è una cosa che mi inorgoglisce e allo stesso tempo mi lascia perplesso… Alla fine di ogni mio concerto c’è sempre qualcuno che mi raggiunge per stringermi la mano e dirmi: “Grandissimo, complimenti, non pensavo fossi così bravo”. Ho ormai accettato l’idea di avere a che fare con questo tipo di complimento, però mi chiedo: ma come cazzo mi vedevano in passato? Cosa avevano capito di me?”. Anche questo è Francesco Baccini: spavaldo, sicuro del suo talento e del suo mestiere. Ironico, talvolta amaro, è anche fragile, però. Di quella fragilità tipica degli artisti. Ora è tornato con “Archi e frecce” (Incipit Records, distribuito da Egea Music), il nuovo album insieme all’Alter Echo String Quartet. Inequivocabilmente. Ma attenzione, nulla di ciò che fa Baccini nasce per catturare l’ingenuo wow dei facilmente impressionabili. Ogni scelta, ogni soluzione, in questo disco, è funzionale a un obiettivo antico: fare emozionare. Non fatevi quindi confondere dal cappello circense. Soprattutto, non scambiate Baccini per un saltimbanco. In “Archi e frecce” compaiono 19 pezzi (“i miei tre principali successi, molti brani che amo tratti dai miei vecchi dischi, “Genova blues” che scrissi con De André, e due inediti”, “L'equilibrista” e “Il signore della notte”) che presentano il repertorio del cantautore genovese in un’altra prospettiva sonora. L’Alter Echo String Quartet, ensemble tutto femminile, e Michele Cusato, chitarrista che ha curato gli arrangiamenti, hanno calato la poetica bacciniana in un nuovo humus creando trame sonore straordinariamente congeniali al progetto (non mancano, peraltro, inserti di pianoforte, armonica e sax). Avrebbe potuto rivelarsi un disastro – un incrocio azzardato di stili, scelte e cromie –, e invece “Archi e frecce” è una gemma. Se da un lato le ritmiche si sono fatte meno sciolte – “loose” direbbero gli inglesi –, i toni e le atmosfere dei brani ci consegnano un album cosparso di pathos in cui Baccini canta la sua preziosa dimensione, luogo libero in cui la tensione melodica e la cura dei testi sono sostenute da un eccezionale impianto musicale. Svestire e rivestire le canzoni. Questa l’idea. Fece qualcosa di simile – per non scomodare artisti troppo lontani – Enzo Jannacci con “Milano 3.6.2005”. In quel caso furono gli arrangiamenti notturni e jazzati ad esaltare i pezzi di quarant’anni prima. Qui sono gli archi, la musica da camera.
Hai capito fin dall’inizio che “Archi e frecce” potesse essere una folgorante intuizione?
No, avevo qualche timore. Perché sono sempre stato una one-man band. E quindi ho sempre cambiato tempi e ritmi senza dovermi curare di qualcuno che dovesse starmi dietro. Invece questo è stato un lavoro collettivo, a tratti delicato. Eppure quando ci siamo trovati l’intesa è stata immediata, tutto fluiva in modo naturale.
Il tuo percorso musicale forse è stato un collante...
Beh, nasco con ascolti classici, suono il piano da quando avevo nove anni. Primo concerto a cui ho assistito, Uto Ughi. A quindici anni scopro il blues e il rock, poi vengo trafitto dalle opere-rock (ma non dal musical, che è una cosa diversa!) e sviluppo un modo personale di cantare, di intendere la canzone. La mia musica è sempre stata “suonata”. Potresti mai immaginare “Le donne di Modena” fatta con le sequenze?
No, le tue canzoni hanno sempre esibito molta personalità.
Perché non mi accontento di beccare la nota giusta. Dalle opere-rock, per esempio, ho preso quel cantato-recitato che trovo enormemente espressivo. Un modo per cercare di cantare un mondo, prima che una semplice canzone. I grandi interpreti sono quelli che ti raccontano una storia, lasciamo perdere le gare di bravura.
Come pensi che debba “suonare” la musica dei tuoi dischi?
Vera. Solo vera. Perché la musica vera non invecchia, mentre il suono di una tastiera invecchia appena la tecnologia propone un nuovo modello di tastiera. Lo so che oggi un computer mi può fare tutti gli archi che voglio, ma continuo a preferire gli archi veri.
Oggi torneresti a Sanremo?
Mai dire mai. Guardo avanti, non sono un nostalgico. Sono cresciuto negli anni ’70 ma un sacco di musica di quell’epoca mi faceva schifo.
Quando si parla di gusti musicali risulti uno “difficile”. Confermi?
In parte. Ma non sono uno snob. Solo che di musica ne ho fatta e ascoltata tanta e dopo tutti questi anni mi sono arreso: all’estero la fanno meglio. Il nostro mainstream è inascoltabile, ma del resto quando anni fa andai a New York qualcuno mi chiese se davvero Anastacia da noi fosse così famosa. Risposi di sì, un po’ stupito. Dopo tutto Anastacia l’avevano partorita loro. Però la vedevano come musica per undicenni, mica per giovani adulti. Forse è proprio questo, in fondo, il problema: molti adulti, da noi, si accontentano della stessa sbobba che negli States è destinata ai teenager.
Per tornare alla nostra canzone: nemmeno Lucio Corsi ti convince?
Non l’ho ancora ascoltato, ma diverse persone me lo hanno segnalato. È molto difficile da noi, oggi, fare strada con qualcosa di valido. I media provano a distrarti, a portarti altrove. E poi alla gente della musica credo che oggi freghi molto meno di prima. La musica è diventata un accessorio. Per capirci: la musica che fai nasce dai maestri che hai avuto. Chi cazzo sono stati i maestri degli ultimi 20 anni? Oggi si provano a fare i soldi veloci, tutto qui, non ci sono figure di riferimento, modelli.
Vent’anni fa avevi un rapporto più ravvicinato con la discografia. Cosa si è rotto a partire da quel periodo?
Il disastro è iniziato prima di 20 anni fa. Con i video di MTV e tutti i diktat che MTV imponeva: per loro un cantante, a 30 anni, era già vecchio. Eppure diventò la Bibbia con la quale misurarsi. Quello che passava era ciò che bisognava ascoltare. Poi con le boy-band e le varie Britney Spears è collassato tutto, il livello si è ulteriormente abbassato. Le radio, nel frattempo, non brillavano per indipendenza o libertà di pensiero, sia chiaro. E qualcuno un giorno dovrà spiegarmi bene cosa si intende per brano “radiofonico”.
Leggero, che non fa pensare.
Appunto. Ti pare che il pubblico di oggi, dopo anni e anni di questa robaccia, sia in grado o abbia voglia di pensare? Gli artisti, di base, sono dei rompipalle inaffidabili, un po’ anarchici. Se li sostituisci con l’entertainment il gioco è fatto. Se poi li sostituisci con il cazzeggio è ancora meglio. Faber diceva che i cantautori sono gli anticorpi della società contro il potere, se il potere li fa suoi siamo finiti. Così, purtroppo, è stato. Siamo bombe disinnescate.
Anche De André fu disinnescato?
Oggi tutti lo riconoscono per il genio che è stato. Ma nel 1989, quando lo frequentavo, mica lo passavano per radio. Il suo pubblico stava invecchiando, cancellò persino alcune date del tour perché non vendeva i biglietti. Oggi sarebbe stupito da tanto amore, tanta devozione. Faber morì con la percezione che il pubblico lo stesse abbandonando. Del resto tante radio, all’epoca, mettevano soprattutto dance. Anche a me suggerivano di farmi fare un remix da qualche dj.
Restiamo nella tua città natale: poche settimane fa l’università di Genova ha conferito la laurea honoris causa a Ivano Fossati. Pensi che lui possa essere uno di quei punti di riferimento di cui si sente il bisogno?
Conosco Ivano. C’è reciproca stima, ma non abbiamo mai lavorato insieme. Colpa mia, forse. Di base sono un orso. Ho scelto la carriera che ho avuto anche per non essere obbligato ad avere dei colleghi di lavoro. Nel giro contavo solo tre veri amici: De André, Jannacci e Freak Antoni. Tutti morti. A volte mi manca confrontarmi con loro, non poter commentare insieme gli strani tempi che viviamo. Jannacci, che poteva essere mio padre, mi diceva: “Tu sei uno dei nostri”.
E uno come Morgan, che con “StraMorgan” ha provato a riportare la musica in tv, pensi che stia dalla tua stessa parte? Che sia “uno dei vostri”?
Mi auguro di sì, altrimenti farebbe altro (ride, nda). Però anche lui è una goccia nel deserto. E poi la tv tende a divorarti, “ha una forza da leoni”, come diceva Enzo. Oggi è tutto gossip, prima di pubblicare un nuovo disco dovrei farmi paparazzare in compagnia di qualche “celebrity” dell’Isola dei famosi per essere certo che, a margine, si parli anche del disco. Oppure dovrei pubblicare storie “hot” su Instagram, tipo. Cazzate del genere. Il pubblico si è addormentato alla grande. Non ha più pretese, non sa più cosa desiderare perché è regredito.
Ma se fossi uno spettatore per chi spenderesti i soldi di un biglietto?
Non sono un fanatico dei concerti perché sono agorafobico (cioè la paura di trovarsi in situazioni da cui non si può scappare facilmente, ndr). Ma a parte questo, oggi si confondono i like con la qualità. Se dare un like a qualcuno costasse un euro vedi quanta gente ci penserebbe prima di mettere un like a “Carote” di Nuela, per citare un fenomeno relativamente recente. Tre o quattro anni fa era l’eroe dei social. Ogni due minuti le testate nazionali gli dedicavano un articolo. Dov’è finito adesso quel ragazzino? Sparito. La popolarità, se ti arriva male, è una macchina infernale. Ecco, uno come Paolo Conte di like non ne prende tanti, ma neppure ne ha bisogno: ogni volta che annuncia un tour i biglietti vengono fulminati in pochi giorni. È il live, oggi, l’unica salvezza della musica. L’unica dimensione che può sottolineare la differenza tra gli artisti e i sedicenti tali. Tra Conte e Nuela.
Hai appena fatto “nomi e cognomi”, ma noi non ti censuriamo.
“Nomi e cognomi” ormai è un disco di culto, non esiste più. Lo hanno tolto dal catalogo anni fa. Sulle piattaforme è introvabile. Uscì nel 1992, anno caldissimo, tra la morte di Falcone e la burrasca di Tangentopoli. In quel momento di subbuglio generale pubblicai un album in cui parlavo esplicitamente di Andreotti e Curcio. Come se oggi facessi un pezzo intitolato “Giorgia Meloni”. La CGD, al tempo, ci impazzì dietro, ma vendevo e nessuno ebbe il coraggio o la forza di fermarmi.
Anche “Filma!”, pezzo di quattro anni dopo incluso in “A colori”, fece girare un discreto numero di palle, se non ricordo male.
Sì, ero solo contro tutti. Ma mi lasciavano fare perché i numeri erano dalla mia parte. Però appena il disco uscì, si scatenò la bagarre delle polemiche. I discografici mi dissero subito: “Te la sei cercata”. Sì, me l’ero cercata. Non volevo diventare nazionalpopolare.
Hai voluto farti conoscere per tutto ciò che avevi da dire e da dare. Pensi di esserci riuscito?
Ho sempre provato a far capire alla gente che non ero solo “Ho voglia di innamorarmi” o “Le donne di Modena”. E se dopo tutti questi anni il pubblico mi conosce per ciò che sono, lo devo ai live. Per tanti anni non ho avuto neppure un manager, mi piaceva fare solo i concerti. Mi dicevano: “Ma tu sei veramente punk”. Sì, solo che non ho mai indossato la divisa punk. Come Freak Antoni, che hanno fatto passare come artista demenziale, ma non era altro che un punk all’italiana.
Live come immagine fedele di te. Quello di martedì 16 maggio sarà un appuntamento goloso.
Sì, serata con doppio concerto al Blue Note di Milano.
Un live per cercare di inquadrarti, una buona volta.
Mah. Baccini è “quello bello”, dice qualcuno. Ma anche “quello brutto”. Oppure “quello simpatico”, ma per alcuni invece è “quello antipatico”. “Quello che fa le canzoni tristi”, ma anche “quello che ti fa battere il piede”. Magari per alcuni sono “quello che ha fatto Music farm”. Boh.
Me l’ero dimenticata la tua partecipazione a “Music farm”.
Bene, buon segno. La tv l’ho sempre evitata, quando possibile. Mi chiamassero per fare l’artista, e non il giudice, magari drizzerei le antenne, ma se devo fare il pagliaccio sto a casa mia. In Italia la musica non interessa più. Ma non tutto il mondo è l’Italia per fortuna.
Vivere sul Lago di Como ti tiene lontano dalla caciara?
Genova l’ho lasciata presto. Mi sono trasferito a Milano per coronare il mio sogno musicale, ma da anni mi chiedo come diavolo abbia fatto a vivere in quel caos. Qui sto per i fatti miei, me la godo. Non tornerei mai in città.
Nella calma del lago trovi il tempo per qualche rimpianto?
No. Ho fatto tutto quello che ho desiderato fare. Se avessi incontrato discografici meno idioti potrei dirti che nel 1993 mi trovai ad un passo dal poter incidere un pezzo come “Portugal” insieme a Compay Segundo, un anno prima che esplodesse il fenomeno del Buena vista social club. Mi negarono un biglietto aereo per Cuba. Vabbè, i discografici meriterebbero una dissertazione a parte.
Il 2023 sarà imperniato sul tour di “Archi e frecce”. O c’è dell’altro?
A settembre, per Amazon Prime, uscirà il film dedicato al mio tributo a Tenco di una decina di anni fa. Scoprirete un Baccini inedito.