Per chi come me scrive per lavoro ci sono pezzi che risultano particolarmente semplici da scrivere, e pezzi che invece sono assai complicati. Quello che sto scrivendo ora rientra ovviamente nella seconda categoria, pur avendo di suo tutto le caratteristiche per essere scritte con il mignolo della mano sinistra (che poi provateci voi a scrivere un pezzo con il mignolo della mano sinistra, manco Daniel Day Lewis ci sarebbe riuscito, ai tempi d’oro). Perché oggi mi trovo a scrivere di Ragazzi madre: l’Iliade di e su Achille Lauro, documentario appena uscito per Amazon Prime Video, e a me, credo sia risaputo, l’artista romano fa genericamente piuttosto cagare. Quindi mi potrei limitare a mettermi qui a scrivere qualche frase a effetto, giocarmi la carta dello sfottò, senza neanche perdere troppo tempo a guardare sul tablet oltre un’ora dedicata a un personaggio che trovo irrilevante sul piano musicale, e anche piuttosto respingente sotto il profilo della comunicazione, con quel suo raccontarsi come artista a 360°, del resto è lui stesso a firmare la regia su un documentario che parla di se medesimo e che nel farlo cita, così, a caz*o, l’Iliade. Il fatto che nel promuoverla abbia detto che verrà riconosciuto come il nuovo Thom Yorke, diciamolo, troppo ridicola come affermazione per provare a scherzarci su pensando di far ridere di più, impresa impossibile. Invece succede che io abbia da poco rescisso il contratto col suo ex manager, dopo una collaborazione di pochi mesi, e dopo aver firmato, prima di averlo come manager, anzi, partendo anche da lì, una prefazione a un libro che raccontava proprio come i due hanno negli anni lavorato alla messa in bolla della sua carriera, copiando passo passo le scene cardine del film Velvet Goldmne, quindi in qualche modo so di avere sopra una sorta di spada di Damocle, nello scrivere, perché come mi muovo posso sbagliare, ben lo so. Certo, potrei evitare di scriverne, ché non me lo ha ordinato il dottore, di farlo, ma a me la vita comoda non mi è mai piaciuta, altrimenti avrei fatto altro, quindi eccomi qui. Eccomi qui che parto proprio da quella mia prefazione, per andare poi a passare a raccontare di questo documentario, ennesimo di una lunga serie di inutili docuserie celebrative o autocelebrative che hanno il solo scopo di accontentare la bulimia di fanbase neanche troppo estese, niente di più di quanto ci si possa aspettare, sempre che qualcosa ci si debba in effetti aspettare.
Allora, la prima cosa da dire, è che la figura dell’ex manager, che a prescindere da quel che lui, l’ex manager, ha raccontato nel libro di cui sopra, è stato oggettivamente al suo fianco per i quattro anni nei quali Achille Lauro ha letteralmente fatto il botto, passando dall’essere un artista noto per gli appassionati di trap all’essere un personaggio popolare, mainstream, uno che va a Sanremo e spacca, poi ci torna l’anno dopo e spacca di nuovo, e e poi ci torna l’anno dopo come superospite, uno famoso, in pratica, ecco, la figura dell’ex manager in questo documentario non c’è. Non è che non c’è nel senso che non è presente oggi, con le interviste che corredano i girati dell’epoca, non c’è proprio, non viene neanche nominato, come se non fosse esistito. Il che è strano, perché che i due fossero inseparabili, forse anche troppo, è cosa nota a chiunque abbia un minimo di dimestichezza col mondo dello spettacolo e della musica, due cuori e un’anima, si dice in questi casi. La seconda cosa, e questo rende il tutto più complicato, è che Ragazzi madre: l’Iliade, documentario di e su Achille Lauro, a differenza del 99% dei documentari e delle docuserie sugli artisti, è molto ben fatta, avvincente nella modalità di racconto, nella scelta di alternare passato e presente, nella lingua della voce narrante, ovviamente del medesimo Achille Lauro. Un bel documentario, in pratica, che però racconta una storia che non è la vera storia di Achille Lauro, come non potrebbe esserla, che so?, quella dell’Inter del triplete senza citare Mourinho, per intendersi, dando per assodato che Achille Lauro sarebbe Milito, o viceversa. Una gran bella cazzata, quindi, ma ben fatta davvero, al punto che la voce coatta di Lauro De Marinis, questo il suo nome, come quelle coatte di buona parte di chi vi compare, risultano quasi gradevoli, invece che incredibilmente urticanti. Ora, so che sto andando a incamminarmi in un sentiero pieno di pericoli, perché parlare di quello che vorrebbe essere cronaca, seppur ammantata di un’aura di artisticità, figurati, Achille Lauro è quello che ha presentato il suo libro fotografico vestito di rosso come Marina Abramovic al Mudec, tutto deve sempre essere iperartistico, poco importa se la credibilità tra quel che mostra e quel che è non coincide, ecco, parlare di quello che vorrebbe essere cronaca come invece si parla della fiction, pura fantasia, in qualche modo potrebbe sminuirne il senso, ma tant’è, quando Achille Lauro dice che è andato, al singolare, da Ferdinando Salzano, grande manager, per proporgli di portare Rolls Royce a Sanremo, oltre che aver dimostrato che le famose inchieste fatte (da me) sul conflitto di interessi di Salzano, manager di Baglioni, direttore artistico del Festival ai tempi, erano tutte vere, dice una cosa invece falsa, perché quell’io dovrebbe essere un noi, e in quel noi ci dovrebbe, appunto, essere davanti l’ex manager, dietro lui. Immagino anche la difficoltà di tagliare l’ex manager da ogni singolo fotogramma, chiunque abbia memoria dei vari Festival, a partire proprio da quello del 2019, se li ricorderà sempre insieme, un lavoro di editing pazzesco (lo si intravede solo quando Lauro dà del tonno a Staffelli, anche se in tv lo si noterà molto di più, qui è stata ovviamente presa una inquadratura amica, la faccia pixelata). Niente, comunque, rispetto alla riscrittura della realtà operata su questa storia, privata di uno dei suoi assoluti protagonisti. Certo, anche il raccontare in maniera così epica questa storia, dando letteralmente i numeri, dopando sia il lato oscuro, la vita di strada, sia i successi, i numeri, appunto, dicono altro, essere parte del sistema di cui si vuole essere contraltare, mentre proprio aver citato Fedinando Salzano attesta che la storia di Lauro è appunto una storia di assoluta integrazione, zero apocalisse, tutto questo è in qualche modo una mistificazione assoluta, ma è una mistificazione molto ben impacchettata, tirata a lucido, godibile. Saper raccontare le cazzate è a suo modo un talento, e Achille Lauro, se davvero è lui a aver diretto questo documentario, lo sa fare bene. Lo sa fare in maniera quasi credibile, e quel quasi sta lì solo perché la vera storia è altra. Già, comunque, il fatto che ci sia costantemente lui che parla seduto su un trono in un teatro di tradizione vuoto, immagino a se stesso, visto che è lui il regista di questa opera, rende bene il grado di megalomania del personaggio, ma del resto sempre su Amazon Prime Video c’è un documentario su Rocco Hunt e uno di Blanco, non è che si può pretendere troppo da questa genia di artisti o sedicenti tali.
Ora, immagino, tanto stiamo appunto parlando di cose fantasiose, che l’ex manager di Achille Lauro, spero avrete apprezzato che, come Achille Lauro in Ragazzi madre: l’Iliade, io non lo abbia mai citato per nome, si chiama mimesi, immagino che l’ex manager, appunto, non abbia firmato nessuna liberatoria, ma il non nominarlo appare appunto abbastanza bizzarro, come indicare in altre figure, lo stesso Salzano, Nik Cerioni, Alessandro Michele, su tutti Achille Lauro medesimo, sia una scelta narrativa bizzarra, non un Aspettando Godot che Godot, appunto, non mostra, perché qui non c’è attesa, c’è assenza, assenza ingiustificata. Il triplete senza Mourinho o Milito, ripeto, ma con secchiate su secchiate di egomania. Piccola digressione a bordo pagina, l’idea che sia stato rivoluzionario vestirsi da Britney Spears sul palco dell’Ariston talmente tenera da essere naif. Come che quel suo citare in continuazione cose fatte da altri, tutti riconoscibili, sia nei fatti veicolare messaggi importanti, qui si parla di paraculismo, non certo di consciousness (checché ne dica Nik Cerioni, che magari ci crede pure, chissà). Vedetevi Velvet Goldmine e poi guardate alle scene clou di questa serie e vi sembreranno un filo meno originale, ben fatto ma pura citazione. Lo dico, ripeto, dopo aver rescisso a mia volta il contratto che per qualche mese mi ha legato al suo ex manager, non certo per tenere una parte che, evidentemente, non è la mia. Uno dirà, ok, ma se il risultato vale vale. Vero. Ragazzi madre: l’Iliade è da vedere. Credo l’unica opera di Achille Lauro che non mi abbia fatto cagare. Anzi. L’unica che non penso sia irrilevante, specie per chi poi andrà a sua volta a fare un documentario su se stesso raccontando i propri infiniti successi, anche quelli inventati. Un cult, a suo modo. A parte la caduta di far vedere i momenti benefici, che onestamente ci stanno appiccicati su con lo sputo, per il resto è tutto perfetto. Per capire come si possa fare un documentario ben fatto. Per capire come si possa mistificare la realtà. Per capire come la realtà, quindi, sia spesso sopravvalutata. Chi se ne frega della realtà. Supersopravvalutata, la realtà. Un po’ come la carriera di Achille Lauro per come la racconta Achille Lauro, tutta schiuma e niente sostanza. Schiuma che dice di essere sostanza, fumo che dice di essere arrosto, Achille Lauro che intervista Achille Lauro, diretto da Achille Lauro, spiegandoci come Achille Lauro sia Achille Lauro. Wow. Anche in questo, in fondo, il documentario ci azzecca, nel rendere quella che voleva essere una storia di strada che poi diventa una storia di riscatto in qualcosa di molto simile a un fantasy, tutta draghi volanti e cavalieri con scudi e lance. Ullallà, wow.