Non so esattamente come da piccolo mi immaginavo il futuro. Non so neanche se in effetti me lo immaginavo, perché da piccoli il concetto di tempo è piuttosto modellato sul nostro essere piccoli, mancano i punti fissi sui quali appoggiarsi per fare riferimento, la prospettiva. So però che quando ero piccolo il futuro era ancora qualcosa verso la quale si guardava con curiosità, non fosse altro perché ero figlio, non solo io, sia chiaro, di quella generazione che era sopravvissuta alla seconda guerra mondiale, quindi protagonista più o meno partecipe del boom economico, e guardare al futuro era sicuramente per loro un modo per progettare qualcosa di migliore. Mica è un caso che lo sbarco sulla Luna, romanticamente visto come appunto un allargare quegli orizzonti prospettici, sia avvenuto quando avevo poco più di un mese. Il futuro, per dirla con il mio amico Enrico Ruggeri, era una ipotesi, e su quella ipotesi si fantasticava, chi col naso in su, guardando letteralmente le stelle, chi coi piedi saldamente a terra, buttando le basi per le sue fortune. Intorno era tutto un proliferare di idee, alcune bislacche, buone per quei romanzi di fantascienza, quelle serie tv, penso a Spazio 1999, quanta ingenuità in un titolo, o Star Trek, quelle saghe cinematografiche, anche lì, mica sarà un caso che mentre la musica incappava in quella anomala forma di contestazione interna al sistema che risponde al nome di “punk”, anno 1977, George Lucas approdi al cinema con Guerre Stellari, probabilmente la più grande operazione di mashup tra arte e marketing della storia dell’umanità.
Confermo, non so esattamente come da piccolo mi immaginavo il futuro, ma quello che posso azzardare, senza l’ausilio di una memoria che non sia oggetto di mie elucubrazione ex post, è che se mai avessi dovuto immaginarmi qualcosa non me lo sarei immaginato come è il presente oggi, anno del Signore 2023. Non dico che pensavo che saremmo in effetti andati a vivere su Marte, anche se a questo puntavano tutti quei racconti lì, ma sicuramente non avrei pensato, o ora sarei ai Caraibi a lanciare ghiaccioli ai delfini, qualcosa come la rete, internet, il web, quindi i social, lo streaming, la liquidità, il cyberpunk, a proposito del 1977, avrebbe in effetti in corsa corretto il tiro. Strada facendo, appunto, per citare una canzone di quando ancora la rete, se esisteva, era solo nei testoni del Pentagono o di qualche nerd che per il Pentagono sarebbe finito a lavorare, ho cominciato a pensare a un mondo di connessioni, tutti abbiamo fantasticato, ammettiamolo, sul nostro vivere una vita non esattamente edificante con visori e guanti collegati a un qualche computer, ma che in tutto questo fosse il corpo a finire fuori gioco, la fisicità, onestamente, non me lo sarei mai potuto aspettare. Intendiamoci, che la rete fosse la rete l’ho capito credo per tempo, per quanto fosse possibile capirlo operando in un settore, allora mi occupavo di editoria più che di musica, che alla rete guardava con terrore (la musica no, e si è visto in effetti come certa discografia è andata a finire), ma il fisico è sempre stato parte di quel sogno, anche quando era in effetti un incubo, le connessioni neurali, Matrix, jack e prese in qualche parte del corpo. Invece, questo è il mondo per come posso immaginarmelo oggi, complice un certo disincanto che a volte tracima in cinismo rassegnato, sembra che il futuro sia in prospettiva in assenza di fisicità, un mondo che stiamo contribuendo a costruire in un mondo che abbiamo abbondantemente contribuito, mi ci metto più per solidarietà coi carnefici, a distruggere.
Non scambiate queste mie parole per un testamento malinconico, non lo è. Né per la constatazione affatto amichevole di chi recrimina, anche a favore di chi verrà, verso chi ha mosso le leve, o chi ha lasciato che chi muoveva le leve lo facesse impunemente. Non mi piace piangermi addosso, seppur io sia consapevole che le lacrime, penso alla scena finale di Blade Runner, Philip K Dick e volendo anche Ridley Scott in qualche modo hanno provato seriamente a immaginarselo il futuro, e farci dono del loro pensiero, sono parte integrante di una resistenza alla defisicizzazione del nostro esistere, il sapore salato che scende dagli occhi e arriva alla bocca è qualcosa di immaginifico, chi non ne ha fatto la prova, da piccolo, come non ha provato a leccare il sapore del sangue, lasciandosi in seguito andare a altri umori, immagino, era morto ancora prima di crescere. No, non voglio piangermi addosso, anzi, mettetevi comodi, perché questo mio parlarvi, attraverso parole che sto digitando non su una Lettera 22 della Olivetti, ma un Pc comprato per pochi spicci su Amazon, parole poi destinate a finire proprio in rete, prenderanno una piega quantomeno inconsueta, per come l’incipit poteva lasciar presumere, questo cambio di registro continuo e repentino è sicuramente figlio di una scrittura che si sviluppa su device che consentono correzioni in itinere, “copia incolla e sposta” di interi parti di testo, lo spirito del passare da link in link che ha ormai invaso il nostro modo di ragionare, e quindi di esprimerci, dando certo frutto a brutture pericolose come la famosa frammentarietà del pensiero o, peggio, la disattenzione e distrazione che ci vuole tutti incapaci di mantenere il pensiero fisso su un concetto per poco più di qualche secondo, ma è anche un allargamento di sguardo che un tempo si potevano permettere solo i visionari, in quanto tali per altro senza aver modo di trovare sul proprio cammino gente capace di intenderli.
Quello che vorrei provare a fare, lo sto già facendo da alcuni minuti con la vostra passiva complicità, è ipotizzare, torniamo a quando eravamo bambini, cosa la musica sarebbe potuta diventare se a un certo punto non si fosse deciso che il futuro non era poi così imminente, come di chi non ha ben presente che quando si corre dopo un passo arriverà il passo successivo, pena il crollare a terra a corpo morto, con quel che ne consegue. Quando, cioè, a un certo punto la musica è passata dall’analogico al digitale, non intendo ancora una volta fare il riassunto delle puntate precedenti, già fatto anche troppe volte e facilmente recuperabile in rete, appunto, e di lì a breve i file hanno sostituito il fisico, i discografici intenti a cercare di capire l’origine della lanuggine nel proprio ombelico, fatto che ancora oggi, in epoca fluida, resta come retaggio del nostro essere stati primitivi, lasciando che la pirateria, partita con buone intenzioni e presto finita dentro il testo rivisto e corretto da Morgan della canzone di Bugo, rendesse l’idea stessa di musica come qualcosa di gratuito e quindi equiparabile a un diritto acquisito, come l’acqua, la musica liquida che ha spazzato via quella solida, fisica, finendo poi per divenire aerea, evaporata, ecco, in quel preciso momento c’è stato un artista che ha provato a alzare il tiro, rendendo la fisicità qualcosa di talmente fisico da tirare in ballo anche un ulteriore senso, fino a quel momento lasciato fuori dalla morta dal mercato musicale, l’olfatto.
Siamo esattamente nel 2000, anno iconico come forse nessun altro tra quelli che chi scrive, e parte di chi legge, ha avuto modo di vivere, non sto certo parlando di bug o di Nostradamus, ma il passaggio di millennio è sempre qualcosa di sorprendente, quando Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti, da tempo passato dalla fase “è qui la festa” a quella “guru”, decide di tirare fuori un doppio album dal vivo dal titolo Autobiografia di una festa, ventinove canzoni dal vivo più un inedito, File not found, per un totale di due ore e quaranta di musica, una serie di copertine una differente dall’altra, un booklet di quarantotto pagine che se lo strofini emana un profumo particolare, ogni tipologia di copertina differente emana un profumo differente, ovviamente, roba da feticisti. Nel presentarlo, Lorenzo, indossava un cappellino, niente di nuovo nel suo immaginario, con su scritto Napster, provocazione bella e buona verso la discografia, compresa la sua discografia, che con un ritardo direi fatale si ritrovava nel terrore di fronte a un sito che permetteva il file sharing gratuito dei famigerati MP3, vedi tu a volte come i mondi, anche quelli alternativi, vanno in collisione. Un flop, questo sarà Autobiografia di una festa, un bagno di sangue che, proprio per l’ambizioso vestito che Jovanotti ha pensato, le copertine multiple, il profumo sparso per le pagine del booklet, l’arrivo, nel mentre, della pirateria, lascerà una macchia in una carriera altrimenti fortunatissima, Lorenzo era arrivato lì in una ascesa wagneriana, imponente, ma che in qualche modo lasciava intendere una intuizione non irrilevante, il downloading, così lo chiamerà Jovanotti nella conferenza di lancio dell’album, era cosa cui guardare con curiosità, e lui è sempre stato estremamente curioso, ma anche con ottimismo, individuando i suoi punti di forza, la possibilità di far circolare musica anche fuori dai circuiti istituzionali, forti poi di poter e saper vendere prodotti ben fatti nel mercato canonico, chi mai potrebbe scambiarsi in rete un booklet profumato? Tutto bello, sulla carta, meno nella realtà, perché a prescindere dal flop di Autobiografia di una festa, magari più legato al contenuto che al contenitore, un live è sempre una operazione da prendere con le molle nella carriera di un artista, anche di un artista di grande successo, di lì a poco, chiuso con le manette Napster, sarebbero arrivati altri attori in campo, da Emule a Torrent, la pirateria avrebbe dilagato scaturendo prima nell’ipotesi di una apocalisse, per altro annunciata da tempo anche da chi scrive, e poi virata in beffa da Daniel Ek e soci, Spotify e più in generale lo streaming a salvare l’insalvabile, la vaporizzazione di quella che ci era stata raccontata come musica liquida, con i risultati che ben possiamo vedere, anzi, sentire. Resta che, dopo la fase in cui la musica si è vista, oltre che ascoltata, inutile star qui a raccontare anche l’esplosione di MTV e della forma dittatoriale dei videoclip, la vista applicata al movimento a fornire un ulteriore gamma si sensazioni, dopo che le copertine dei vinili avevano già iniziato a introdurre questo senso a lato dell’udito, ecco che Jovanotti, ben ventitré anni fa, inascoltato forse perché troppo avanti nei tempi, aveva avuto l’intuizione di portare in scena anche l’olfatto, consapevole che il mondo animale da sempre ha appaltato all’olfatto tutta una serie di operazioni fondamentali, da quelle legate all’area della riproduzione, il sesso animale parte spesso da odori, a quello legata al controllo del territorio, pensate ai cani che pisciano agli angoli di strada, per arrivare a quello del tenersi alla larga dai pericoli. Mica vorremo star qui a mettere in discussione un meccanismo ben oliato come quello che da millenni il mondo animale ha allestito, no?
Un altro settore, oltre la musica, che ha dovuto fare seriamente i conti con la rete è stato il porno. Tornando agli anni in cui mi sarei dovuto immaginare il futuro, punto di partenza di questo scritto, il porno era qualcosa di laterale, che si trovava nel retro delle edicole, nascosto sotto forma di giornalini pieni di fotografie in certi cespugli di dove io e i miei amici andavamo a giocare a calcio, si favoleggiava anche dietro una certa tenda del solo noleggiatore di videocassette presente in città, vivevo in provincia, film che si diceva fossero stati girati da una porzione snob della borghesia locale, evidentemente annoiata, proprio dal titolare di quel bizzarro negozio, di lì a poco a rivestire i ben più austeri panni del sagrestano del duomo cittadino. Qualcosa di proibito, la famosa scritto “vietato ai minori di 18 anni” campeggiava ben visibile sui manifesti dei cinema a luci rosse, spesso a coprire quelle parti del corpo altrimenti in mostra nelle locandine che avrebbero portato alla censura. Un mercato florido, si è sempre letto, sdoganato, a livello di immaginario, da personaggi quali Cicciolina e Moana, finite sia in parlamento che dentro la televisione generalista, ben prima che ci finissero altre loro colleghe quali Selen, prima, Eva Henger, poi, Rocco Siffredi addirittura diventato testimonial di alimenti (sì, una patatina, certo, ma diciamo che un tempo il connubio porno-cibo sarebbe stato impensabile fuori da un contesto intellettuale, citofonare Marco Ferreri per credere, perché in realtà cibo e sesso sono legate altroché sì, figuriamoci diventare mainstream quanto uno spot tv può essere). Un mercato che, di colpo, ha dovuto rivedere il proprio sistema, nel momento in cui internet è arrivata a occupare militarmente la scena, la pirateria a rendere gratuito quel che un tempo era non solo proibito, certo, ma anche a pagamento. L’ingresso in campo dei social, specie di quelli come Twitter, senza alcun tipo di censura reale, ha reso la faccenda ancora più complicata, perché pagare per qualcosa che puoi avere gratuitamente?, siamo sempre lì. Così ecco la nascita di PornHub, tentativo anche piuttosto riuscito di aggirare il sistema, rendere indipendente una industria altrimenti statica. E poi ecco OnlyFans, il rapporto uno a uno tra utente e talent, proprio nel momento in cui una serrata delle aziende che gestiscono le carte di credito e debito ha rischiato di mandare questa nuova routine a puttane, scusate il francesismo.
Non è certo mia intenzione andare a indicare nel porno il segreto attraverso il quale anche i cantanti potrebbero salvare la pelle, cosciente come sono che sì, i cantanti dovrebbero prima o poi cercare di capire come sopravvivere in un mercato nel quale, grazie allo streaming, a prosperare è solo l’industria, su una economia anche piuttosto traballante, non certo loro, seppur mi è chiaro da tempo, e questa chiarezza è tale non certo solo per me, che è nei live che si trova per ora l’unica chance di sopravvivere, specie in quelli di massa, quindi a appannaggio di chi probabilmente neanche avrebbe questo gran bisogno di sopravvivere, non è questa la mia intenzione, guardando al mondo a luci rosse, anche se il fatto che da una parte ci siano le popstar e le rockstar e dall’altra le pornostar dovrebbe dirci qualcosa, e che le metafore, pescando in quel mondo, mi sarebbero venute anche troppo facili, quanto piuttosto quello di chiudere questa mia disquisizione sul tema che potremmo poeticamente chiamare “il profumo della musica”, un po’ meno poeticamente e invece carnalmente “l’odore della musica”, ecco, andando a ripescare un evento non troppo lontano nel tempo che, subito, mi ha riportato alla mente la questione di Autobiografia di una festa, bagno di sangue, sì, ma con l’intuizione rimasta tale del booklet profumato. Era infatti giugno dell’anno scorso quando l’attrice Valentina Nappi ha dato vita a una decisamente inedita performance presso il Museo CAM, museo di arte contemporanea di Casoria, in provincia di Napoli. Il giorno 18 giugno, infatti, la Nappi ha performato per sei ore su una sex chair, una sorta di altalena a cui era imbragata completamente nuda, per farsi odorare dagli oltre quattrocento visitatori che hanno deciso di assistere a questo evento intitolato Senses. Una performance che il CAM ha definito futurista, sicuramente figlia di certe intuizioni di Marina Abramovic, su tutte a Rhythm 0, che negli anni settanta andò di scena proprio a Napoli, dove però non era l’olfatto al centro della scena, quanto il tatto. Una performance che ha legato poi l’olfatto al gusto, perché a lato della postazione allestita da Valentina c’era la possibilità di assaggiare alcuni piatti preparati dallo chef Pasquale Trotta che proprio agli odori delle singole parti del corpo della Nappi erano ispirate (odori riprodotti da ingredienti utilizzati per creare un menu ad hoc). Una operazione situazionista, verrebbe da dire, dove non è ben chiaro se sia il porno a aver invaso il campo dell’arte o viceversa. Sicuramente qualcosa di non convenzionale nel momento in cui la rete sta rendendo tutto in qualche modo iperpresente nelle nostre vite, anche invasivo, succede come dicevo, anche con la musica, che ormai possiamo ascoltare 24 ore al giorno, ma anche distantissimo, impercettibile, sicuramente non tattile. Un modo concreto, animalesco, torniamo agli odori, al sesso ma anche al pericolo, un modo per tenere distante l’idea di un futuro fatto di blockchain e di NFT, o magari, con i blockchain e gli NFT che convivono con una musica fatta di udito, vista e anche olfatto, per il gusto ci si deve ancora lavorare.