Iniziamo dalla fine: il Vernacoliere rischia di chiudere. L’appello lo ha lanciato in queste settimane proprio chi, 40 anni fa, lo aveva creato: il direttore Mario Cardinali. “Servono 5 mila nuovi abbonati per andare avanti, la crisi economica e dell’editoria cartacea si è fatta sentire e ha colpito anche noi. È arrivato il momento che le tantissime persone che ci elogiano su Facebook (il Vernacoliere conta a oggi oltre 270 mila “mi piace”) facciano anche un’azione concreta: l’abbonamento”.
Le risposte ci sono state subito, tutti vogliono bene al Vernacoliere. Lo hanno dimostrato anche i messaggi di sostegno arrivati da parte del sindaco di Livorno Luca Salvetti, anche lui giornalista, del vignettista Vauro Senesi e del calciatore Alessandro “Alino” Diamanti, ex capitano del Livorno oggi stella del campionato australiano.
Noi, Mario Cardinali, lo abbiamo incontrato nel suo regno, l’ufficio al secondo piano del civico 5 di Scali del Corso, in quella Livorno verace e pimpante della Venezia Nuova, l’unico quartiere della città che, dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale e la ricostruzione postbellica, ha mantenuto gran parte delle sue caratteristiche urbanistiche. Un fascino unico descritto anche da Curzio Malaparte nei Maledetti Toscani: “Nell’architettura aperta e liscia di queste case, le più belle del Mediterraneo, si respira un senso di nobiltà un po’ stanca e di libertà popolaresca. Fossi un livornese, di quelli veri che dicono "deh" e parlano a mano aperta, muovendo le dita, come per far vedere che nelle loro parole non c'è imbroglio, ci vorrei star di casa in qualche Scalo della Venezia. Che bella vita sarebbe, che vita semplice e felice”.
La redazione del Vernacoliere profuma di giornale, di carta, di autentico, di gente. Tutto è appeso alle pareti ed è come fare un viaggio nella storia d’Italia, osservandola dal bancone di un bar di via Grande a Livorno. Ogni titolo, ogni copertina, ogni parola raccontano personaggi, politici, grandi storie, pezzi del nostro tempo. E prende tutti per il culo. Senza colori, senza vie di mezzo, senza ipocrisia. Si va a dritto, giocando le debolezze, l’incoerenza e i vizi di chi sta al potere e, soprattutto, giocando con le parole, mestiere di cui Cardinali è un vero maestro. Uno di quei geni che se parlano di politica, di calcio o di topa (argomento a lui molto caro), ti incantano e ti chiedi dove trovino quell’ispirazione, quella velocità di pensiero che sembra innaturale, irraggiungibile.
Mario Cardinali non è solo il Vernacoliere, ma è anche Livorno. È la sua voce, la storia di questa città ribelle che non accetta compromessi e sottofondi buonisti. È la parola del popolo che si prende gioco delle istituzioni. Lui sa tutto: può tenerti lì, per ore, a spiegarti a cosa servivano le torri di Livorno, torna addirittura all’anno 1000, affonda sull’antica rivalità con Pisa, ti delinea la fisionomia del Toscano che è diversa da quella del livornese. Ti incolla alla sedia.
“I Livornesi hanno la ghigna - afferma con fierezza - siamo toscani perché ci troviamo su questa terra, ma siamo animali misteriosi, viviamo in opposizione con tutti gli altri. Più semplicemente siamo figli di puttana, per questo diciamo sempre che i pisani non hanno fatto nulla di male nella loro vita, hanno solo avuto la sfortuna di averci accanto”.
Ed è appunto la storia di come si è popolata questa città che ne determina il carattere.
“Livorno non vuol essere capita ed amata, non ha bisogno di conoscere le proprie radici. Siamo un popolo individualista e sfrontato. D’altronde siamo nati da un Cacciucco di etnie molto diverse tra loro. Sono stati i Medici a costruire la città e a istituire le cosiddette Livornine che, per favorire lo sviluppo dell’economia marittima del Granducato di Toscana, fecero sì che chi veniva a vivere e a lavorare qui sarebbe stato libero da ogni delitto, da debiti, tasse. Così Livorno diventò un porto franco un po’ per tutti”.
Stessa sfrontatezza che ritroviamo sulle pagine del Vernacoliere…
“Il Vernacoliere non sarebbe potuto esistere altrove, la livornesità è qualcosa di innato che, come si dice noi, non s’agguanta e alla sua irriverenza ho dato contenuti. Livorno però da tutto per scontato, non ti dà importanza, e il successo è arrivato soprattutto fuori dalla città. Per farti un esempio, quando è uscito il mio libro Ambrogio ha trombato la Contessa, mi hanno chiamato ovunque, anche a Milano al Circolo della Stampa, capivano la valenza del lavoro”.
E intanto raccontava l’Italia, prendendola in giro, sulle sue pagine. Oggi come racconterebbe questa società?
“Sono un cattivo giudice, non sono figlio di questi tempi e per questo non riesco del tutto a immergermi. Oggi, anche durante una pandemia, si scopre che la gente vuol divertirsi, quando eravamo ragazzi noi riuscire a far merenda era già tanto. Tutto questo è il risultato di decenni di consumismo, liberalismo. Viviamo solo per consumare, siamo come polli di allevamento oberati e ossessionati dalla pubblicità. Quando ero ragazzo sai che mi piaceva fare?”
Cambia discorso per parlare di donne?
“È sempre quella al centro di tutto no? Però, per arrivare al dunque, ci inventavamo di tutto: dedicavamo poesie alle compagne di scuola, parlavamo di filosofia, di come ci immaginavamo il nostro futuro oppure, quando si restava tutti uomini, ci divertivamo con un bastone a giocare a ghinè e cambrì. Bastava davvero poco per stuzzicare la nostra creatività”.
Leggo alcuni titoli che sono pura poesia: Dopo ir Pci cambia nome anche la Topa; Berlusconi appare alla Madonna e ni dice: ti darò un altro figlio; D’Alema, Berlusconi e Prodi ar fronte: ce li leveremo di ‘ulo?; Arrivano i preti fatti in Cina, costano poo e un vogliano nemmeno l’ottopermille; Anche Dio canta Bella Ciao…Potrei proseguire all’infinito e mi viene da chiederle se c’è un segreto, una tecnica oppure è totalmente arte. Perché per me questa lo è…
“Posso definirle poesie di grammatica, non volgari, non banali, unite alla mia voglia di fare il bischero. Perché, sembra banale, ma c’è da studiare per scrivere le parolacce. Vogliamo essere come la gente, parlare come si fa sulla strada. È la contrapposizione al potere”.
Capi di stato, politici di ogni colore, la chiesa. Questi i principali protagonisti della vostra satira. Com’è il rapporto con loro, qualcuno si è risentito?
“L’ultimo è stato Salvini che se l’era presa perché secondo lui non avremmo dovuto tirare in ballo la Madonna, lui però poteva farlo nei comizi. Era comunque un attacco strumentale. C’è stato Borghezio che ci disse perché non ce la prendevamo mai con Maometto, gli risposi che in Italia abbiamo la chiesa cattolica. Simpatico fu il battibecco con l’allora ministro Castelli che ci accusò di guadagnare soldi a scrivere cazzate, mi vene da replicare dicendogli semplicemente che io non rubavo. In generale, però, fa piacere quasi a tutti essere sulle nostre copertine, la maggior parte le rilancia, ci scherza su. Uno su tutti, però, ci ha dato tante soddisfazioni”.
Provo a indovinare?
“Troppo facile, te lo dico io: Berlusconi. Te la serviva su un piatto d’argento la satira, un gigante, un antesignano che ha portato gente improbabile in Parlamento, personaggi dello spettacolo, gente da circo”.
Qualche querela nel cassetto però mi sa che ce l’ha ancora.
“Il cassetto è pieno di denunce. La più assurda è arrivata dalla chiesa per il titolo Madonna trogolona. Il riferimento era a Madonna, la cantante, che aveva posato per il libro fotografico Sex, non alla madre di Dio. Ci accusarono di offesa alla religione cattolica. Allafine il giudice ci ha dato ragione, scagionandoci, ribadendo che la satira è un’espressione fondamentale della libertà di pensiero. Ci tengo a precisare che la nostra satira non vuol colpire la fede religiosa, ma i potenti anche dell’autorità della chiesa”.
Il Vernacoliere, storica pubblicazione che non è solo copertine, ma anche contenuti di elevata qualità, rubriche e personaggi mitici come il Troyo, Fava di lesso, la nonna bionica e mille altri, al pari firme di prim’ordine del panorama della cultura italiana, tra i quali Max Greggio, Federico Maria Sardelli, Daniele Caluri, Emiliano Pagani e una schiera infinita di scrittori, disegnatori, giornalisti, vignettisti, professori, oltre alla sua genialità, al carattere, ci fa respirare un sentimento di totale libertà, mantenuta nel tempo, negli anni, fino a oggi. Non era per niente facile.
“Qualcuno ha provato a comprarci, ma ho sempre mantenuto fede a ciò che mi aveva mosso all’inizio di questa esperienza: non essere un pupazzo e non mettere in vendita la libertà. Purtroppo, il lavoro di giornalista oggi è cambiato, ormai è un bene d’uso, si fa per campare, per la famiglia, per pagare le bollette e, per questo, si diventa quasi sempre servi di qualcuno. Io ho avuto fortuna: nonostante il Vernacoliere sia rimasto lo stesso, ho sempre pagato le bollette. Però cambiato io ed è cambiato il paese”.
Me lo spieghi meglio.
“Io sono meno spensierato, la gioventù si esprime in modo diverso dalla maturità. Il paese invece ha perso il senso critico. Oggi i Re sono dei buffoni che si auto attribuiscono il potere e sono figli di un paese che era passato dalla Prima Repubblica alla Repubblica della Mafia. Prima i politici sembravano più preparati, ma erano dei farabutti, ora invece i partiti sono semplicemente dei comitati di affari dove il primo affare è trovare il posto”.
Quando ha iniziato, negli anni ’70 con Livornocronaca e poi con il Vernacoliere, avrebbe mai pensato di arrivare così lontano?
“Non avevamo nessun progetto, siamo partiti e basta. Mio padre vendeva pubblicità, io volevo creare qualcosa che si contrapponeva al potere. Pian piano abbiamo costruito una piccola azienda familiare in cui sono impiegati praticamente tutti: mio fratello, mio nipote e le mie due rispettive compagne. Quello che mi rende soddisfatto è la stima che ci confermano i lettori, il rapporto esclusivo che abbiamo con loro che si percepisce anche quando andiamo fuori a fare gli spettacoli e li trovo ad attendermi in fila”.
Nonostante questo, la crisi dell’editoria cartacea ha colpito duro.
“Sì, oggi le persone non vanno più in edicola, passa tutto dai social network, è cambiato il livello di attenzione e le vendite ne risentono. La tiratura attuale è di 15 mila copie, nei momenti più alti siamo saliti fino a 60 mila. È molto difficile andare avanti”.
Non vorrai arrenderti ora.
“Se stai a sentire Toti, il governatore della Liguria, noi vecchi ormai siamo improduttivi e, secondo lui, io che ho 83 anni dovrei morire insieme al Vernacoliere? Sai che mi verrebbe da dirgli: io sono vecchio, ma te tromba di più”.
Sempre la topa nel mezzo.
“È straordinaria, è una categoria kantiana, come l’uguaglianza per i socialisti. Smitizza, ci riporta ad argomenti terreni, è la storia dell’operaio che torna a casa dopo una giornata passata a lavorare e pensa: speriamo ci sia un po’ di topa, altrimenti si piglia sempre in culo”.
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