Quando ero giovane, negli anni Novanta, vivevo ad Ancona, città nella quale sono anche nato. Era il periodo del grunge, quindi chi in città suonava, tendeva a emulare quelle sonorità, spesso anche quel caratteristico look fatto di cappelli di lana, camice di flanella a quadretti, felpe con sopra una t-shirt, i capelli portati lunghi e non troppo curati. Un gruppo di miei amici, i Bali's Kitchen, hanno per un po' di tempo provato a farsi largo in un circuito per altro piuttosto intasato di nomi proponendo canzoni che, nella loro testa, sarebbe potuto tranquillamente finire nella tracklist del prossimo album dei Pearl Jam o dei Soundgarden. A loro vantaggio, va detto, la presenza in line-up del mio amico Roberto, praticamente il sosia di Chris Cornell, indicato dalle ragazze anconetane come il più bello in città. Con lui erano in line-up Alessandro, occhialuto chitarrista appassionato di libri che in effetti finirà poi per lavorare presso un noto distributore locale, Giovanni detto Johnny, per questo suo aver creato un alter ego, John Auden, dotato di una sua precisa biografia, quasi un metaverso prima che di metaverso si parlasse anche solo nelle riviste specializzate, come lui musicista, anche se John Auden suonava la chitarra mentre Johnny il basso, e con un repertorio piuttosto elaborato, fatto di dischi, tutti immaginari, e quindi di canzoni, vedi tu a cosa può portare il vivere in provincia senza neanche far uso di sostanze stupefacenti. Chi fosse alla batteria, confesso, l’ho dimenticato, sicuramente qualcuno di poco conto nello sviluppo del discorso musicale, e comunque non parte di quella combriccola di amici, che per un po’ di tempo sarà anche la mia combriccola di amici. Roberto, il più bello di Ancona, era comunque quello cui ero più legato, e era davvero la copia di Chris Cornell. Lo dico a ragion veduta, visto che io ero ai tempi considerato il sosia di Kim Thayil, che della band in questione era il chitarrista, talmente tanto simile all’originale che per ben due volte, in entrambi i casi l’indomani di una loro performance a Bologna, presso il centro sociale Isola nel Kantiere divenuto famoso per l’Isola Posse All Stars di Stop al panico e per essere finita dentro i primi libri di Silvia Ballestra, sono stato confuso per il medesimo, complice, immagino, una quantità industriale di birra bevuta la sera precedente da parte dei malcapitati, lì a chiedermi se ero Kim, io a confermare il tutto più per spirito samaritano che per un gusto tutto mio per la presa per il culo.
Tornando però ai Bali’s Kitchen, nome esotico che in realtà faceva riferimento al luogo dove la band aveva visto per la prima volta la luce, nella cucina della sorella del Chris Cornell de noantri, Albalisa detta Bali, nonostante i tanti tentativi, le gig fatte nei centri sociali e nei pochi locali dove si suonava dal vivo in zona, nonostante i demo fatti su audiocassette da far circolare tra gli amici, niente, i Bali's Kitchen non riuscivano proprio a imporsi, neanche nella più ristretta scena cittadina. Outsider tra gli outsider in una città che era nella periferia della provincia, destino baro e infingardo. La svolta, almeno momentanea, avvenne con una canzone che con tutto il resto della loro produzione non c'entrava nulla, né per sonorità, decisamente più pop-rock sguaiati anni Ottanta, e soprattutto per le tematiche trattate nel testo, stranamente in italiano. Lo dico sempre io che, oltre a essere stato testimone dei fatti narrati in quanto presente fisicamente ai fatti ero anche a mia volta autore di una hit dell’epoca mica da ridere, sempre da quelle parti, Ancona, Marche. Mica da ridere si fa per dire, perché la mia hit, la hit della band in cui militavo, gli Epicentro, si intitolava Pentiganò, ossia grande pantegana, e in realtà parlava in termini non troppo lusinghieri della figlia della tizia che ogni santa volta che provavamo a suonare nella cantina che avevamo adibito a sala prove, in perfetto stile rock’n’roll, cantina del nostro cantante, puntualmente scendeva a intimarci di smettere di suonare, minacciando di chiamare i carabinieri, il nostro bollarla come un ratto di fogna di grandi dimensioni era dovuto al suo abusare di gel per capelli, fatto che in effetti ci faceva venire alla mente i ratti di grandi dimensioni, lo spirito dissacrante degli Skiantos, o meglio ancora degli Alice Donut, band hardcore affatto nota in Italia ma alla quale ci ispiravamo, faceva il resto. In quanto autore del testo e di parte della musica di Pentiganò, quindi, hit locale negli anni che vanno dal 1992 al 1994, posso parlare con cognizione di causa della musica che girava intorno, dove per intorno intendo nei locali, pochi, e centri sociali, altrettanto pochi dell’anconetano, location di questo mio narrare.
Torno ai fatti, quindi. Se fino a quel momento le liriche vergate dai Bali's Kitchen ruotavano immancabilmente intorno a un esistenzialismo al limite del depresso, anzi, ben oltre il depresso, diciamo al limite del depresso cui psicoanalisi, prima, e psicofarmaci, poi, abbiano fatto zero effetto, con qualche piccola apertura verso il sociale che non usciva dall'imbuto del “moriremo tutti, e male”, stavolta l'essenzialità del messaggio era perfettamente fotografato già nel titolo, poche parole molto ma molto chiare, in barba a classici grunge come Smells Like Teen Spirit e Black Hole Sun che a stento riviste specializzate quali Rumore o Blow Up cercavano di dare una qualche spiegazione filologica, allestendo molto spesso impalcature destinate a capitolare alla prima intervista arrivata su suolo italico rilasciata dai diretti interessati.
La canzone che per qualche tempo ha donato una certa fama ai Bali's Kitchen si intitolava “Cosa non si fa per la figa”, brano che intendeva raccontare, è facile intuirlo, come l'uomo sia per sua natura propenso a sottoporsi a ogni tipo di prova, anche umiliante e contro natura, su questo Servi della gleba? degli Elio e le Storie Tese e decine di altre canzoni incoronate dal successo di pubblico e di critica hanno fatto il loro sporco lavoro, pur di raggiungere l'obiettivo prefissato, la figa, appunto. Ancora oggi, a distanza di oltre venticinque anni, in città se la ricordano, giustamente, anche se Roberto è invecchiato, Johnny è diventato un rispettabilissimo dirigente della Camera di Commercio e degli altri anche io ho perso traccia. Del resto, la natura ci insegna che quasi tutto quello che facciamo, di bello ma non solo, lì guarda, alla conquista dell’altro sesso (lungi da me ora star qui a parlare di discorsi concernenti l’orientamento sessuale, il gender fluid e roba del genere, è indubbio che il mondo animale abbia particolarmente a cuore l’attività sessuale finalizzata alla procreazione, di questo sto parlando, seppur nel caso dei Bali’s Kitchen e della loro Cosa non si fa per la figa non era di procreazione che si intendeva parlare, quanto più che altro di figa in quanto luogo di piacere e divertimento, il patriarcato e un politicamente scorretto ancora plausibile hanno reso possibile tutto questo).
L’istrionismo, indicato dal vocabolario come tendenza all’esibizionismo e alla teatralità, ha in natura un suo fondamento nel tentativo di colpire l’attenzione dell’altro sesso, al fine di potersi poi accoppiare, mica per andare a cena fuori a parlare d’arte. Non a caso chi si vanta, quindi si fa bello, viene spesso accostato al pavone, e il pavoneggiarsi è di conseguenza l’atto spavaldo del farsi bello. La ruota del pavone, quella che affascina coi suoi colori elettrici anche noi umani, è il modo che il pavone ha per affascinare la femmina, la ruota un atto di conquista dichiarato e facilmente decifrabile da entrambe le parti. Così come è un atto finalizzato a attrarre le femmine il costruire figure geometriche equiparabile alle nostre strutture di design, frutto di studi di architettura, messe in scena dall’uccello giardiniere, nome scientifico Ptilonorhynchidae, lì in Australia e Nuova Guinea dove vive e prospera. Lavori, quelli dell’uccello giardiniere, elaboratissimi, che richiedono molto tempo e molte energie, fatti utilizzando foglie, rami, talmente elaborati da utilizzare la prospettiva, cui noi umani siamo arrivati solo a cavallo tra il 1300 s 1400 grazie al Brunelleschi, oltre che la simmetria. E questa cosa della simmetria, per altro, da noi umani percepita come ordine, quindi attinente alla sfera della affidabilità, si pensi all’utilizzo che facciamo in certi ambiti della cravatta, lì in mezzo al petto, simmetrica, precisa, ordinata, è per altro un aspetto che la natura non sempre contempla, costringendo alcune specie e alcune razze a lavorare sul proprio aspetto, ma qui finiremmo davvero fuori tema. Nei fatti l’uccello giardiniere elabora le sue opere d’arte, che poi finisce per continuare a mantenere nel tempo, rinfrescando lo strato di fango che tiene insieme i pezzi assemblati, sostituendo eventuali pezzi rovinati, esattamente come farebbe un artista o un museo con un’opera d’arte. Opera d’arte la cui finalità è sempre e solo quella di conquistare le femmine di passaggio, per potersi accoppiare. Il fatto che in psichiatria l’istrionismo, cioè quella caratteristica all’esibizionismo usato dagli animali per conquistare l’altro sesso, viene riconosciuto come disturbo mentale, quello cioè di colui che agisce con una emotività pervasiva e eccessiva e che si caratterizza con un comportamento molto marcato finalizzato alla ricerca di attenzione, di approvazione e sostegno da parte degli altri, il tutto tramite comportamenti apertamente o nascostamente seduttivi. Istrione, parola che deriva dall’etrusco histrio, parola che ricorda neanche troppo vagamente la parola greca hysteron, che significa utero e che invece, in psichiatria, è la genitrice della parola isteria, ben sappiamo tutti come il vibratore sia stato inventato in un passato neanche troppo remoto, sul volgere dell’Ottocento, da parte del medico e inventore Mortimer Granville, per provare a curare coloro che venivano riconosciute come isteriche. Indurre all’orgasmo donne che soffrivano di disturbi psichiatrici, infatti, è stato fino almeno agli anni Venti del Novecento pratica non solo ammessa, ma assai consueta. In pratica, in epoca vittoriana, l’orgasmo, chiamato in maniera piuttosto asettica parossismo isterico, veniva praticato manualmente da dottori alle loro pazienti, tramite un massaggio pelvico che non prevedeva la penetrazione, quindi era considerato atto non sessuale. Figlio diretto del Tremoussoir francese, un vibratore a molla inventato intorno agli anni Trenta dell’Ottocento, entrato in scena proprio per curare l’isteria a fianco di un utilizzo massivo di oppiacei, e del successivo Manipulator, del 1869, dove le molle erano state sostituite da un ingombrante macchinario a vapore, al punto che poteva essere usato solo in determinati studi medici, piuttosto spaziosi, inventato dall’americano George Taylor, il vibratore elettromeccanico di Granville è del 1883, presto superato a sinistra da un suo simile a batterie, arrivato nel 1899. Quando più avanti nel tempo si passerà dall’utilizzo medico a uno esplicitamente sessuale, grazie o per colpa del suo ingresso nell’industria pornografica, il vibratore uscirà definitivamente di scena dagli studi dei medici, almeno per quel che concerne visite e cure, finendo poi per diventare un sex toy intorno al 1968, durante l’epoca della liberazione sessuale. Come io sia riuscito a passare a parlare della cronistoria dei vibratori a partire dai Bali’s Kitchen, oscura band anconetana, e passando poi a dire di istrionismi animali finalizzati all’accoppiamento, per mezzo dell’uccello giardiniere, immagino potrebbe essere oggetto di studio, ma nei fatti si parlava di istrionismo e di isteria, e c’ero io che, forzando la filologia, provavo a indurre una qualche parentela tra istrionismo e utero, come a voler meccanicamente far quadrare il cerchio.
Chi invece, molto meno forzatamente e con una naturalezza che ci ricorda esattamente un pavone che fa la ruota, un qualche uccello che canta melodie originalissime o un uccello giardiniere che allestisce una sua qualche opera, si candida a incarnare a futura memoria esattamente quel passaggio lì, da istrione a utero, almeno in potenza (sull’atto facciamo a fidarci del nostro intuito), è Irama, un artista che si era presentato al pubblico ormai qualche anno fa evidenziando ottime capacità di scrittura, un pop vagamente urban che affrontava i sentimenti in maniera mai banale, supportato da un aspetto conturbante, gli orecchini che richiamavano gli acchiappasogni dei nativi americani, gli occhi liquidi, per poi finire a inanellare tutta una serie di hit di una bruttezza estetica talmente elevata da tracimare in quella categoria di brutture che anche gli spiriti più raffinati non possono evitare di fissare con morbosità, come capita quando in autostrada ci capita di passare di fianco a un incidente mortale, su questo James Ballard, mio vecchio pallino, ha detto molto più di quanto noi potremmo star qui a raccontarci, il tutto alternato a brani languidi, come quello presentato l’anno scorso a Sanremo, Ovunque sarai, o l’ultimo singolo titolato a guidare il repack natalizio del suo album, Ali, chiaro omaggio proprio agli uccelli di cui sopra. Qualcosa che trova giustificazione solo nell’istrionismo, quello animale, non quello psichiatrico, e nella volontà perseguita con una cocciutaggine quasi encomiabile di finire dentro qualche utero, facendo proprie le parole di quella vecchia freddura di Woody Allen “nasciamo dall’utero e passiamo tutta la vita a provare a rientrarci”.