Da qualche settimana, scrollando il cellulare in cerca del mio profilo, scopro che Instagram offre a tutti noi, suoi utenti, volendo, la possibilità di rimettere in vita, sia pure nell’illusione fotografica, i propri “morti”. Prossimi e lontani, familiari o perfino oscuri; ogni possibile trapassato. Poco importa se consanguinei o trascinati fuori dal catasto funerario della storia foto-iconica iniziata con gli scatti nebulosi di Daguerre e Niepce; l’imbarazzo smarrito della scelta sentimentale, tombale. Credo si tratti di un’applicazione, già nell’annuncio, decisamente, plasticamente, mortuaria.
L’ho detto, potrei prendere una foto di mia madre, o anche, perché no, dei nonni, degli zii, di un amico che manca, e subito decidere di “animarla”. Avendo l’illusione che proprio Lei, metti, mia madre in questo caso, torni a sorridermi, a salutarmi, a dirmi: “Vedi, non me ne sono mai andata, rieccomi a te, sono proprio io, sono la persona cui hai voluto bene, e adesso, lo so, ti stupirà, ti sto guardando dal caos delle rete”. L’applicazione in cui mi sono imbattuto (sebbene credo ne esista più d’una) per invogliare a utilizzarla, usufruirne, offre subito alcuni esempi possibili di “volti” da far risorgere, appunto, fotograficamente, e poco importa che tutto questo sia illusorio, spettrale: un capitano della Raf in uniforme del 1942 oppure una ragazza dallo sguardo “melodico” immersa nel bianco e nero di un dopoguerra perduto, tutte creature che d’improvviso sono pronte a tornare a sorridere, poco importa se da dietro la carlinga di uno Spitfire o in un prato fiorito che fa sfondo, sorridono proprio a me, a noi, che li abbiamo appena salvati, trascinati fuori dall’immobilità del rigor mortis, consegnando la sensazione d’essersi d’improvviso trasfigurati quasi “cinematograficamente”; divi e dive di una morte infine, almeno virtualmente, cancellata, obliterata; quasi ricoperte dalla grana della meraviglia: il loro, il nostro.

Mario Schifano, anni fa, mi fece dono di una foto scattata al continuum della televisione nei giorni del centenario dell’invenzione del cinema, vi appariva Charlot in fuga di spalle, accompagnato in sovraimpressione da una frase dei Lumière: “Ora che possiamo fotografare i nostri cari, non soltanto immobili, ma anche in movimento, la morte cessa a essere assoluta”.
La nostra applicazione, effettivamente, restituendo a una presunta ulteriore esistenza visiva i volti dei trapassati, restando in un ambito sublime mortuario, rimanda altrettanto a Truffaut di La camera verde, al sogno di un cenotafio dove trattenere i volti di chi patiamo l’assenza, il vuoto, la distanza, l'inafferrabilità, già, proprio gli Assenti, eppure in questo nostro gioco altrettanto vale il ricordo di un vecchio telefilm americano interpretato da Enzo Cerusico, Tony e il professore, lì, a un certo punto, c’era modo di illudere qualcuno, l'ingenuo, il malcapitato, come i suoi cari gli parlassero dall’Ade: bastava proiettare l’immagine del “morto” su una cortina di fumo, in questo modo la sensazione che le labbra si muovessero era illusoriamente reale, vera.
A dispetto di ciò che ha pazientemente cercato di spiegare a tutti noi un filosofo dell’Esistenza, Albert Camus, ossia che l’essere umano non può essere “felice”, in quanto cosciente di nascere condannato a morte, l’umanità non riesce a rassegnarsi all’impermanenza delle cose, ciò che prende nome morte, lutto.
Restando al tema della Perdita e alla possibilità “tecnica” di medicare un’immagine fotografica, in un romanzo non ho potuto fare a meno di soffermarmi a raccontare la vetrina di un laboratorio di un fotografo dove erano esposti, reliquie iconiche familiari salvate infine, gli scatti rovinati dal tempo e dall’usura, tra graffi, margini sgualciti, strappi e macchie di umidità, dove l’infranto veniva ricomposto attraverso un restauro al computer, sia le crepe sulla carta sia le parti del volto mancanti perché probabilmente non c’era stata eccessiva cura nel custodirli in un album.

Sotto i profili social che offrono il “miracolo” della resurrezione fotografica, c’è ancora modo di leggere una sequenza di suppliche che, accanto all’ideale Preghiera del Ritorno, accludono un’immagine, sì, una fotografia quasi sempre, puntualmente accompagnata dal bisogno di cura e risveglio: “Questa è mia madre, morta da molti anni, me la fate rivivere?”
Un istante appena, ed ecco risorto l’ufficiale della Raf pronto nuovamente a sorridere come neppure gli scritturati degli Studios di Hollywood o Cinecittà, e ancora la madre sognata e rimpianta, tutti liberati dal “fornetto” oscuro della lontananza, del tempo trascorso, lontani dal buio della bara. Pensandoci bene, se mia madre fosse viva, lei che non si era rassegnata alla morte della sua, cioè mia nonna Giovanna, scomparsa il 14 novembre del 1967 ottantenne (infatti, ancora nel 1971, ripeteva “… ah, se le avessimo messo il pacemaker!”, probabilmente anche lei, azzardo, proverebbe interesse per l’applicazione di cui sto parlando, o forse la chiamo in causa solo in funzione narrativa… E mentre dico questo mi torna altrettanto in mente una riflessione capitale sulla fine delle necrologie stesse, un tempo tra le letture più bramate da chiunque ami sfogliare i quotidiani. Bene, se i necrologi sono ormai quasi svaniti, salvo i capolavori di struggente acume letterario che Luca Guadagnino e Carlo Antonelli consegnano alle colonne del "Corriere della Sera" in presenza di un lutto eccellente, la rete, e segnatamente Facebook, anticipa ormai ogni possibile annuncio di lutto e cordoglio o semplice comunicazione catastale di decesso, tutte cose che almeno un tempo venivano affidate proprio ai giornali. Gli psicologi spiegano che, sarà forse colpa della chirurgia plastica che dà illusione di eternità, modificando il soma delle persone al punto di avere creato una nuova razza tra Ande e Oceania, introducendo una forma globale di emotiva “immaturità”, che corrisponde infatti alla non accettazione della finitezza delle cose, dei corpi, del vivente.
So per quasi certo che quanto prima l’applicazione che rivitalizza pose e istantanee verrà anche utilizzata nei cimiteri, con un dispositivo incastonato sulle lapidi di tombe, dove fino adesso le foto dei morti mostrano volti trascorsi, immobili congelati, intirizziti sulla ceramica, giungerà un ideale videocitofono in grado di rendere possibile, sia pure illusoriamente, un colloquio ininterrotto post-mortem. D’altronde, l’intelligenza artificiale ha già dato prova di questo genere di “trucco”, talvolta riproducendo fantasmaticamente la presenza del trapassato ora restituendone la voce, le inflessioni esatte, la stessa grana, un pensiero che mi è stato suggerito osservando una Ennio Flaiano redivivo non meno artificialmente. Intanto che ne vedevo l’intervista “impossibile” ho ritrovato la scena di “8½” di Fellini, forse frutto della fantasia proprio del narratore pescarese, dove al protagonista Mastroianni ritrova in sogno, sebbene muti e stretti nell’antracite mortuario dei loro cappotti, i genitori scomparsi, lì però c’era “poesia, e non la sensazione di un gelo logaritmico, meglio, algoritmico”.