Nahaze è lo pseudonimo di una giovanissima ragazza di Matera. Ventidue anni appena per Nathalie Hazel Intelligente, in pista dal 2019 e ora fuori con un singolo, “Kiddo”, che merita senza dubbio più attenzione di quella che normalmente dedicheremmo a un brano di ultimissima generazione che, come trend impone, non arriva neppure ai tre minuti di durata. E no, Nahaze ha delle cose da dire e da dirci. E lo fa attraverso un prodotto nobile, ricercato (il management è di Angelo Calculli, già storico manager di Achille Lauro, la regia del video è di Riccardo Aloia e, dulcis in fundo, sempre per il video troviamo la collaborazione della Taffo Funeral Services).
Iniziamo con la melodia di un “Carillon”. Nel brano (fine 2019) interveniva Achille Lauro e Boss Doms ci metteva lo zampino. Sei ancora in contatto con loro?
Sì, lui e Boss Doms sono sempre stati presenti, mi hanno dato ottimi consigli. E hanno anche ascoltato il nuovo materiale.
Come sei entrata in contatto con Lauro?
Suonavo in giro per locali. Mi ha notata il produttore Angelo Calculli, che poi mi ha contattata. Dopo che Angelo ha ascoltato la prima versione già edita di “Carillon” l'ha proposta ad Achille Lauro per un featuring, ma nonostante all’inizio non fosse molto convinto, il risultato è stato una “bomba” che ha fatto disco d’oro. Il pezzo era edito e lo avevano prodotto dei ragazzi di Matera. Un brano che colpì Angelo che convinse tutti a fare il take down. Acquistò il pezzo dai ragazzi e convinse anche Lauro a partecipare, non come feat ma come “with” insieme a Doms. Poi il pezzo è esploso anche grazie alla produzione di Boss Doms e a Marco Alboni. Grazie a quel pezzo che fu rifiutato da Sony poi Lauro passo in Warner.
Cerchiamo di capire da dove vieni esattamente. Alla luce dell’imperante ibrido trap-pop che da qualche anno domina le classifiche, tu ti senti un’anima trap prestata al pop o un’anima pop che sa giocare anche con la trap?
Sono cresciuta più con il pop e il rap che con la trap. E provo a non incasellarmi. La trap non fa parte del mio bagaglio musicale, però penso a Lazza. A Sanremo ha portato un brano con sonorità trap, metrica rap e melodia pop. Un incrocio di stili che mi ha fatto un effetto assolutamente naturale, per nulla forzato. Quello che prima era considerato trap, e non si pensava potesse passare per radio, adesso è qui e flirta continuamente con il pop.
Hai la madre inglese e sei bilingue. Hai mai pensato a una dimensione artistica rivolta al mercato UK?
Potrebbe essere il mio obiettivo finale. La mia fanbase ora è in Italia e ci tengo a continuare a costruire qualcosa qui. Però il mercato britannico non mi spaventa. Il mio pezzo “Control” (2020) è stato inserito in “Baby”, una serie Netflix, e ha ottenuto ottimi consensi. Diciamo che seguo attentamente anche ciò che accade fuori dai nostri confini. Di recente, sempre in termini di serie televisive, mi ha molto colpito “The idol”, che vede protagonista The Weeknd.
Cosa ti ha colpito?
Beh, anche da noi c’è un grande dibattere su quanto libera sia la nostra epoca, su quanto sia possibile esprimersi attraverso un’arte non omologata. “The idol” mette sotto la lente d’ingrandimento il mercato discografico americano. Mostra come le major indirizzino il pubblico verso un prodotto-confetto particolarmente “sicuro”, di facile e immediato consumo, anziché rischiare con qualcosa di più artistico.
Ti senti in grado di mantenere l’equilibrio considerando, da una parte, le esigenze (per non definirle “pressioni”) del mercato e dall’altra, per nulla secondario, il tuo legittimo desiderio di edificare una forte identità artistica?
Sì, ma credo che ci voglia polso. Sapere cosa si vuole fare, dove si vuole arrivare. Se gli obiettivi non sono completamente a fuoco ci si perde. Se un pezzo è forte e ti piace, credo che venga spontaneo investirci, senza eccessivi calcoli. In questi giorni è uscito “Utopia”, il nuovo album di Travis Scott. È un album cupo, che lui ha annunciato anticipandolo con il pezzo di gran lunga più commerciale di tutto il disco. Ma l’album è denso, veramente scuro, prova che a volte la nostra parte più accessibile è solo la superficie di qualcosa di più complesso e profondo.
Potresti considerarlo un modello, Travis Scott?
Sì, perché nei suoi dischi si sente lui come artista. Sempre. Anche se talvolta può utilizzare qualcosa di più facile come traino.
Il tuo nuovo brano, “Kiddo”, rimanda a un imminente album?
Ancora non lo so, ma di certo non nasce fuori contesto. Fa parte di un gruppo di brani che ne condividono il mood, l’idea di fondo.
“Kiddo” è parecchio tormentato. Presentacelo.
Questo pezzo è un mix. Canto la parola “morta”, ma quasi con un tocco di leggerezza. Ho cercato di non rendere tragico un brano comunque cupo e drammatico. Che riguarda un tema molto delicato per noi ragazze, quello della libertà. Il potersi sentire libere all’interno di una relazione con un uomo. “Kiddo” parla di una relazione tossica, psicologicamente e fisicamente violenta. Ma parla anche del possibile riscatto della donna. L’idea di emancipazione femminile oggi passa attraverso l’idea che la donna debba sempre essere forte. Invece io, in una relazione, e in quanto donna che in questa relazione dovrebbe essere amata, rivendico il diritto di potermi mostrare anche debole, fragile. Non è questa fragilità a rendermi meno forte.
In “Kiddo” indichi anche una via d’uscita da una situazione così claustrofobica e oppressiva?
Sì, l’omicidio (sorride, nda). Ma è metaforico. Il discorso è: se vuoi uscire da una relazione sbagliata, violenta, non ci sono mezze misure: bisogna chiudere di netto.
Perché certe relazioni tossiche si spingono fino a un punto di non ritorno? Perché per la donna, in questo caso, è così difficile fuggire prima che tutto degeneri e diventi insostenibile?
Credo che l’amore – e parlo anche per esperienza personale – renda increduli. Ti innamori di una persona e non pensi che davvero possa fare certe cose, commettere certi atti. I primi episodi violenti tendi a giustificarli. Poi – secondo step – ti chiedi se tu stessa non stai vedendo tutto ciò che ti accade in modo deformato. Intanto sotto, subdola, bolle la speranza che le cose possano migliorare. Consideriamo anche il fatto che i violenti, le persone che esercitano così male il loro potere all’interno di una relazione, spesso si presentano in modo innocuo. Sono affascinanti, persino teneri. Solo col tempo gettano la maschera. E quando la realtà si ribalta davanti ai tuoi occhi, non sei pronta ad affrontare qualcosa di così doloroso e pericoloso.
Nel video a tratti cruento di “Kiddo” (tu in certe scene sei ricoperta di sangue), c’è anche il tocco delle sempre geniali onoranze funebri Taffo. Com’è nata questa collaborazione?
Come un tentativo di sdrammatizzare. Taffo, sui social, ha trovato una chiave eccezionale – attraverso uno humour sottile e un po’ black, sempre elegante – per parlare di morte.
Può fungere anche da avvertimento un brano come “Kiddo”?
Sì, non è certo un invito alla vendetta. Nelle prime strofe chiedo di essere lasciata stare, poi il brano procede e non vengo lasciata stare. Infine la vendetta, che arriva come soluzione definitiva. L’avvertimento, al di là dell’atto finale, è: troncate, fuggite, fate qualcosa ma alla svelta. Il tempo, in questi casi, è dalla parte del carnefice. Se le cose procedono troppo oltre, non possono che finire male.