Ciao Michela, ti voglio bene. Ti voglio bene in maniera irriflessa perché ti chiami come mia nonna, come mia mamma, come mia nipote (una maniera di tramandare il sangue ebreo che mi scorre nelle vene – la discendenza matrilineare). Ho appena letto l’intervista ad Aldo Cazzullo nella quale parli della tua malattia e mi hai colmato di gioia. Sono felice di avere una avversaria come te, una vera scrittrice, una umana che con il linguaggio vuole riscrivere la malattia: d’altronde questo distingue gli umani dalle blatte come Massimiliano Parente – nominare le cose (Parente è una blatta poiché ateo, uno che non ha capito nulla della vita, come le blatte che non mi risulta frequentino il linguaggio: ci litigai anni fa perché mi mandò un libretto sul darwinismo, se Parente pensa di essere semplicemente una scimmia sono cazzi suoi, ma questo definisce la sua scrittura come scrittura da scimpanzé). E invece noi che “oltrepassiamo” sappiamo che la scrittura, se non si confronta con Dio, non ha nessun valore (lo devo dire: molte tue amiche e amici si confrontano con il tinello). Ma c’è una differenza tra me e te: tu sei religiosa io sono teologo. Tu pensi che Dio salvi io “so” che Dio è ciò che ci uccide. Ma lo fa per una ragione, e vorrei citarti il mio amato Manlio Sgalambro: “Il romanzo giallo cerca l’assassino, solo la teologia lo trova”, e te ne aggiungo un’altra, di citazione: “Ogni collera è collera teologica, come se ce l’avessimo con qualcuno, l’ateo, invece, questa miserabile canaglia, non ce l’ha con nessuno”.
Quindi smettila coi tuoi discorsi da “religiosa” e inizia a pensare da teologa. La cosa che mi ha commosso fino alle lacrime, nella tua maledetta intervista, è l’odio verso i bambini: urlano, vogliono essere al centro dell’attenzione, si intromettono. È lì che ho pianto. Li vedi come concorrenti, perché tutta la tua straziante intervista è l’intervista di una bambina che non vuole morire sola (“ho comprato un appartamento con dieci camere da letto per stare tutti insieme), è un’intervista da bambina che vuole diventare “guru” nella morte, spiegare la malattia, la “complessità”, la comunità, ma si vede che vuoi essere tu il centro dell’attenzione. Mi spiace, per quanto è in mio potere non te lo permetterò, dovessi stare ore in preghiera sotto un carrubo, pregando il grande Stronzo (ma lo fa per un motivo), di non farti morire. Odiami, Michela, odiami con tutto il tuo essere. Lascia l’adrenalina libera di fare esplodere le tue vene. Odiami, ti supplico. Così come è necessario odiare Dio, questo maestro del nascondino che ci uccide per farci capire “altro”, per farci capire “altrove”.
Si muore soli, Michela mia, si muore senza “i diciassette voti” del premio Strega, si muore senza quelli che consideri amici o familiari, si muore devastati dalla Tragedia comprendendo nell’attimo in cui Dio ci uccide quale è il suo “Piano”. Ho preso in braccio mia madre morente, blu in faccia, nel momento in cui, nel giro di dodici ore, le metastasti le hanno invaso i polmoni. Non ho potuto tenerle la mano perché mio padre aveva avuto due infarti e un ictus e dovevo decidere se stare con mia madre o con mio padre, nel parcheggio dell’ospedale. Ho deciso di salvare il salvabile e mia madre è morta sola. Mi consola la verità che la solitudine è un momento essenziale della morte. Non si può morire in compagnia, come tu ti auguri. Non si può morire come una bambina che strilla per attirare l’attenzione, come stai facendo tu. Non si può morire obbligando gli altri ad assisterti, a dormire nelle tue cazzo di dieci stanze da letto.
Ed è per questo che non morirai, Michela.
Mia dolcissima bambina avversaria.
Dobbiamo ancora lottare tanto e vedi di non rompere troppo i coglioni.