Quando ero alle medie, scuola di suore che ritenevano sconveniente - in quanto satanista, chiaro - la lettura del mio libro preferito, Harry Potter e la pietra filosofale tanto quanto i conseguenti volumi tossici, ogni mattina mettevo il mio amato tomo magico nello zaino, tenendolo poi in bella vista sul banco. Fino a che non smisero di confiscarmelo, attaccarmi pezze, convocare i miei genitori che, preoccupati - non era passato molto tempo dalla storiaccia delle Bestie di Satana - cominciavano a pensare di aver messo al mondo una piccola Mefisto. Descrizione in cui, per altro, mi riconoscevo. Soprattutto se quelli che tifavano per Gesù solevano mostrare l’indefessa abitudine di censurare la Rowling e qualunque altro testo che non fosse tratto dalle Sacre Scritture. La vendetta del suorame, per questa piccola ribellione silenziosa e per tante altre a dire il vero, arrivò sul finire dell’ultimo anno di terza, quando la media voti sarebbe stata fondamentale per l’esame finale. La suor Preside mi riconsegnò un tema - non ricordo l’argomento, qualcosa sulla Gloria dei Cieli con ogni probabilità - con un voto, rosso, inconcepibile: Non sufficiente +. Mi alzai, andai alla cattedra e le chiesi, con la glacialità del serial killer, cosa fosse andato storo e che senso avesse un punteggio del genere. Mi rispose: “Non l’ho nemmeno letto il tema, in realtà. Mi sono bastate le prime due parole: hai cominciato con “Io ritengo” e quell’ “Io” non te lo puoi permettere. Un “+” di supporto mi è comunque sembrato onesto aggiungertelo: hai sempre scritto bene”. Ne è nata una conversazione in cui il volto di Suor Preside ha trasecolato tutte le sfumature di rosso possibile: dal pantone tutine di Squid Game al Gabibbo, per poi avvicinarsi alla sua prima bestemmia che, ne sono certa, avrebbe suonato tipo: “Porco Silente infame”. Tutto questo per dire che ho, da sempre, un’accesa ritrosia a scrivere in prima persona. E che, già dagli 11 ai 13 anni d’età, non ero tipa da frignare e avvilirsi per qualsiasi arroganza o intimidazione subita o vista subire a livello personale o da terzi. È una questione di indole, c’è poco da fare. Quindi ora, in orgogliosa prima persona, mi accingo a raccontarvi di un fatto che riguarda me e un messaggio che ho ricevuto dalla “giornalista di 47 anni” (sic) Selvaggia Lucarelli. Diamo inizio alle danze, prendete pure i pop corn e state pronti a farli brillare come fuochi d’artificio. Mefistofelici, naturalmente. Che le vecchie abitudini son dure a morire.
Qualche giorno fa, mi è stato chiesto da MOW di dare un occhio e, eventualmente recensire, Cartacanta, il quiz tuttora a piede libero su TimVision (per chi se ne fosse accorto) condotto dall’inedita coppia formata da Marco Travaglio e Selvaggia Lucarelli. Purtroppo, le prime due puntate mi hanno fatto rimpiangere l’annata palinsestuale di Agon Channel e ho espresso, con la dovuta ironia, la mia opinione. L’ironia era “dovuta” perché a voler prendere sul serio quello show, sarebbe servito un disprezzo per la televisione (e per il modo in cui la si dovrebbe fare) che non mi appartiene. Spesso e volentieri, quando incappo in qualcosa di visivamente brutto o fluido quanto l’alopecia che fuoriesce dallo schermo del mio computer o della mia tv, non è che mi ritrovi proprio proprio a godere. Più che altro, mi piange il cuore. Ma, come si dice, una risata (o almeno provare a farne fare una) ci seppellirà anche questa scempiaggine, in attesa della prossima.
Pubblicato il pezzo, ho vissuto con serenità le mie giornate, per quanto possibile dato lo slalom quotidiano tra il diluvio di positivi, i minus habens che ancora si chiedono dove andare a fare party hard a Capodanno e i postumi di un 2021 horror che danno la manina agli inizi di un 2022 incerto. Tutto questo fino a che, iersera, mi arriva un messaggio da numero sconosciuto (o, in ogni caso, non presente nella mia rubrica). Il testo è bello lungo, dal mood ferale: “che pena”, dice di me. “Se pensi di fare strada con questi toni da Libero, sei molto lontana dal traguardo”. Il mittente, scopro dalla profile pic, è una sorridente Selvaggia Lucarelli che, nda, del quotidiano Libero è stata pur brillante firma dal 2011 al 2015 occupandosi di costume, politica, cronaca e televisione. (Fonte: Wikipedia, avevo dei ricordi in merito, ma ho dovuto controllare le date. Tra i miei buoni propositi per l’anno prossimo venturo, ve l’assicuro, spicca quello di imparare a memoria l’agiografia, pardon, biografia di Lucarelli, non Carlo).
La premessa, preceduta da un iniziale “Sai, Grazia” dal tono paternalistico (offensivo? Vada per maternalistico), è che, non sia mai, la nostra non se la sarebbe presa per la stroncatura del quiz “che vedranno in pochi” (sic), ma per il modo in cui mi sarei permessa di scrivere di lei, con epiteti inadatti a una “giornalista di 47 anni”. Il pezzo, evidentemente canzonatorio per le ragioni di cui sopra, in effetti, onde evitare ripetizioni, prende in prestito perifrasi a suo modo di vedere brutali: “Mi hanno fatto cascare dalla sedia”, proclama ferita. Quali sarebbero, dunque, le scempiaggini di cui sarei stata malevola autrice? In primis, “ex blogger” per quanto mi senta di dire senza tema di smentita che possiamo tutti concordare sul fatto che costei lo sia stata, blogger, prima di spiccare il volo verso l’iperuranio della celebrità di cui attualmente, buon per lei, detiene le chiavi. Inoltre il blog Stanza Selvaggia vive e lotta ancora con noi, nei meandri del web (ma, inossidabile, tra i primi risultati di Google). L’ultimo post risale al 2016 titolando: “E, inaspettatamente, mi misi a cantare ad un evento Seat”. Quindi, senza scomodare il parere tecnico di Basil L'Investigatopo, mi sentirei serena nel dire che la "giornalista di 47 anni" sia a tutti gli effetti, una "ex blogger". Certo, allora erano lontani i tempi in cui la nostra avrebbe iniziato a dare battaglia contro il Covid-19, i No Vax, alcuni motociclisti, le case vacanza senza aria condizionata, i sindaci che non si occupano di smaltire l’immondizia sulla pubblica piazza & much more.
Altro termine da lei rimbrottato, la (mia) dicitura “opinionista di Civitavecchia”. La sua città natale viene più volte nominata nella prima puntata di Cartacanta, tanto da farmi apprendere che la “giornalista di 47 anni” proprio lì fosse nata. Che abbia, poi, moltissime opinioni, non solo sulle testate prestigiose per cui collabora, ma anche, quotidianamente, sui social, non mi pare un grande mistero. Piuttosto un bel merito personale: onestamente, non avrei abbastanza cazzimma per ritenere fondamentale e necessaria al dibattito collettivo ogni cosa mi attraversi il cervelletto. Sarà che sono andata a scuola dal suorame e lì l’ego te lo piallano aspergendolo d’antrace liquida durante la Santa Messa del mattino. Sarà meglio così per il bene dell’umanità tutta, chi può dirlo.
E chi potrebbe dirlo, naturalmente, se non Selvaggia che “evita di commentare il mio stile di scrittura perché farlo sarebbe troppo facile”. Ti prego, Lucarelli, spara sulla croce rossa, esattamente come ho fatto io bersagliando il tuo miserrimo Cartacanta. Ne sarei onorata, anzi, ci berrei su un rum e coca per festeggiare l’evento e sorvolare sul fatto che, anni addietro, durante i tuoi tre mesi da direttrice di Rolling Stone, mi avevi pure contattato per chiedermi di collaborare con la tua super testata. Al tempo, lavoravo in una casa di produzione e stavo dietro a tre programmi diversi. Vivevo, tra redazione e studio per le registrazioni, dalle 9 del mattino all’una di notte murata lì. Ti ringraziai profusamente, ero veramente felice per questa insperata proposta. Scopro ora, con sorpresa, che usassi invitare a collaborare con te solo gente dallo stile di scrittura criminoso. Magari è per questo che la tua esperienza lì durò così poco, mi rallegra non aver contribuito a tal disfatta. Potevi anche, col senno di poi, ringraziare, battermi un cinque (virtuale) per essere stata troppo impegnata in quel periodo non contribuendo, così, alla tua storica direzione risalente al 2018 e di cui tutti conservano memoria, tipo naufragio del Titanic. Mi beo di non esserne stata l’iceberg, prego.
Il messaggio si chiude con una surreale invettiva sul fatto che, nel 2019 (vado a memoria), non avrei dovuto rivolgere la parola a “un’opinionista di Civitavecchia”. Nel frangente a cui si riferisce, lavoravo per l’ennesima casa di produzione (lasciate stare, perdo il conto pure io, non è cosa) e lei venne in redazione insieme al fidanzato Lorenzo per parlare con il mio capo di idee e progetti futuribili. “Non vedo l’ora di farmi fare un caffè da Grazia Sambruna”, proferì appena prese posto al grande tavolo delle decisioni importanti e io tirai giù mentalmente il calendario Maya perché, me inetta, non bevo caffè e quindi mai mi era capitato di mettere in funzione quel marchingegno terrificante che si nutre di cialde e umiliazioni sparse per restituire, forse un giorno, l’odiata bevanda. Comunque, portai a termine la mia missione per poi chiudermi, insieme all’altra redattrice, nella saletta di montaggio: avevamo cose da tagliuzzare, valutare, rendere pressoché commestibili entro sera. Quella roba che si chiama lavorare, suppongo. A quanto pare, non avrei dovuto. O forse quel caffè era fatto della stessa sostanza dell’azoto liquido. Non ne ho idea. Non c'ero e se c'ero non cialdavo.
Se quando ho scritto la stroncatura di Cartacanta, non avevo niente di personale contro “la giornalista di 47 anni” Selvaggia Lucarelli, devo ammettere che pure ora non ho alcun astio nei suoi confronti. Non ci ho mai fatto una chiacchiera, sono giusto al corrente della sua esistenza e la seguo sui social. Però, ecco, non tollero l’idea di ricevere messaggi intimidatori e con velati insulti, per quanto “che pena” possa essere considerata un’espressione delicata, spediti da una donna, pardon, una giornalista, scrittrice, conduttrice, podcaster, speaker (ho perso il conto, scusate) realizzata nel lavoro, fidanzata con un bono fotonico (pure chef coi fiocchi), che pubblica almeno un best seller l’anno e fa inchieste anche super di rilievo (tanto per citarne una, le sue ricerche sull'intricato campo delle relazioni tossiche che non dubito abbiano dato coraggio e risposte a più di una follower, me compresa). Insomma, da una che è Golia e se la piglia con l'unghia dell'alluce destro di Davide solo perché... può.
Comunque sia, a coronamento del sogno, “la giornalista di 47 anni” mi ha bloccata appena ho visualizzato la sua missiva (o, quantomeno, è sparita la sua sorridente profile pic).
Stroncare un programma televisivo, cara Selvaggia, è un conto (e fa pure parte del mio lavoro, a tutti gli effetti), attaccare l’autrice del pezzo in modo così tanto preciso quanto pavido, è da bulli. Tu sei la firma del giornalismo italiano oramai, hai più di un milione di crani che ti segue su Instagram, in poche parole: ce l’hai fatta. Nessuno, seppur in placido disaccordo con qualcosa che pensi o fai, può scalfire il tuo trono di pubbliche spadate ai cattivoni della nostra orrenda società. Cosa te ne venga in tasca a intimorire (perché, in soldoni, questo è) una pulce con la tosse come me - per quanto cazzuta, me lo dico da sola - è la domanda che mi attanaglia da iersera. È così importante per te dimostrare chi ce l’abbia più lungo (il clitoride)?
Se questo tuo astioso (e personale) messaggio non l’avessi ricevuto io, forgiata dal fuoco di mille suorami, ma un’altra persona, probabilmente le avresti fatto passare un Capodanno al cardiopalma, in compagnia della ferma convinzione di aver sbagliato e magari pure della paura di non lavorare più per essersi messa contro “la giornalista di 47 anni”. Ho parlato di questa cosa ad alcuni amici (che vivono nelle fogne dell’anonimato come me, tranquilla, non ho contatti con influencer, starlette e conduttori e nemmeno ne voglio) che mi hanno risposto: “Sei sicura che ti faranno scrivere ancora?”. Tale dubbio non mi ha nemmeno accarezzato l’anticamera del cervelletto perché ribadisco il sacrosanto diritto a esprimere un’opinione, sì, pure una che non ti trova concorde, Selvaggia. Che a tentare di intimorirmi sia Suor Preside, la “giornalista di 47 anni” o chiunque altro voglia farsi sotto da qui in poi, per me non c’è problema. Venghino siori, venghino.
Divertente, come chiosa finale, il passaggio in cui mi scrivi che non si fa strada parlando male di personaggi televisivi e programmi. Tu quoque, vè? Resto in attesa della diffida di Netflix (adoperati pure in merito), anzi proprio di un Whatsapp affilato di Leo DiCaprio (pure qui, volessi farmi arrivare il suo numero, non mi spiacerebbe), visto che non ho gradito Don’t look up e l’ho scritto a chiare lettere. Non sapevo dovessi sentirmi Braveheart per questo, come non ti ci sarai sentita tu (o almeno spero) negli anni (al vetriolo) in cui hai costruito la tua stratosferica (senza sarcasmo, lo è oggettivamente) carriera. Visto che definire qualcuna “opinionista” per te equivale a “dare della sciacquetta a una donna”, eccomi, sono un’opinionista di Cinisello Balsamo. E questo è quello che avevo da dire.