È morto il 10 gennaio 2023, anche se la notizia è uscita solo ieri, da noi in tarda serata, per una forma letale e fulminante di meningite batterica. Che fosse una leggenda lo testimoniava il fatto che il suo nome, come quello di pochissimi altri (Peter Green, Eric Clapton, in seguito Blackmore e Page), veniva pronunciato poco dopo quello di Jimi Hendrix. Al nome di Jeff Beck (e della sua Stratocaster, della sua Les Paul) è associata un’innovazione – lontana e per questo ormai considerata come un elemento connaturato alla chitarra elettrica – che prevedeva, ad esempio all’interno del celebre brano “Beck’s Bolero” (1967; è il retro di “Hi ho silver lining”), “di utilizzare la chitarra per eseguire il tema melodico principale con la stessa dignità di qualsiasi strumento della tradizione classica europea, a cui (Beck) attingerà sempre, tanto quanto a quella orientale”. Parole di Luca Masperone e Stefano Tavernese, che in “La storia della chitarra rock” (Hoepli) hanno tratteggiato uno dei profili recenti più limpidi e ficcanti del visionario chitarrista del Surrey (Inghilterra).
Notevolmente espressivo e dotato di un talento all’occorrenza pirotecnico (ma non pensate a certi circensi della sei corde, piuttosto a un musicista che non ha mai confuso arte ed effettistica ad alto impatto), Beck per un solo anno, fra il 1965 e il 1966, suona con gli Yardbirds. Uscito dal gruppo si mette in proprio (a capo del Jeff Beck Group inciderà lo storico “Beck-Ola” del 1969) e subito all’esordio (“Truth” è del 1968) lancia due nomi assoluti: il futuro rolling stone Ron Wood al basso e Rod Stewart alla voce. L’album anticipa di qualche mese l’esordio dei Led Zeppelin e annuncia l’alba dell’hard-rock deformando e distorcendo il blues come il magister Hendrix aveva indicato. La chitarra canta, strilla, propone momenti di feroce non-linearità all’interno di blues classici, standardizzati. La leggenda di Beck si cristallizza in quel momento, il suo nome comincia a rimare con “pioniere”.
Presto, però, la classica formazione voce-chitarra-basso-batteria per Beck diventa una gabbia, il sodalizio con Rod Stewart dura poco (il londinese che tifa Celtic finisce nei Faces) e lui prende una tangente proto-fusion che, soprattutto dopo il 1975, diventerà fusion a tutti gli effetti. Di quello stesso anno va segnalato “Blow by blow”, prodotto da George Martin e primo album completamente strumentale firmato da Beck. È una meraviglia, così come il successivo “Wired” (1976), più compiutamente fusion, dove la chitarra dialoga costantemente con tutti gli altri strumenti. Beck mostra una sensibilità artistica flessibile e totale. La chitarra è sguinzagliata, libera di colpire, affondare, osare, ipnotizzare. Un talento, quello di Beck, in grado di caratterizzare un periodo, selvaggiamente free, in cui il rock esce da sé e rientra in sé a piacimento, a seconda dell’umore (prevalentemente scuro), degli obiettivi puntati, dell’esperimento di volta in volta ipotizzato e – ma non pare mai essere stato il caso di Jeff Beck – delle droghe consumate.
Poi anche lui, come natura artistica spesso insegna, finirà nelle spirali dell’autoreferenzialità e dell’inevitabile ripetitività, ma il marchio impresso sul rock come genere alla ricerca di nuove identità rimarrà qualcosa di indelebile, un segno da cui nessun interprete post-Beck dello strumento chitarra ha potuto prescindere.