Sull’esistenza di Dio si può discutere, sul talento di Lauro, no
Di Achille Lauro mi stupisce ormai solo una cosa, che tra le sue infinite citazioni non abbia ancora ripescato Oscar Wilde (o forse l’ha fatto e me ne sono dimenticata), di cui in un certo senso è la personificazione di Dorian Grey quando diceva "There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about" (C’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé), brutalmente sintetizzata nel popolare "Nel bene o nel male, purché se ne parli". Ecco, per me il problema di Achille Lauro è proprio questo: fa parlare di sé troppo. Per di più, sembra proibito parlarne male o anche solo criticarlo. Sull’esistenza di Dio si può discutere, sul talento di Lauro, no.
Eppure, solo fino a tre anni fa, Lauro De Marinis era conosciuto solo nell’ambiente hip-hop da cui proviene, quello underground frequentato solo dai cultori del genere. A guardare la sua prima vita artistica, dev’essere pure stato un talento, sta di fatto che fino al 2017 Achille Lauro non era così onnipresente come adesso. La prima volta che ne ho sentito parlare è stato per la sua partecipazione, in coppia con Boss Doms, a Pechino Express. L’anno dopo pubblica un album, collego il nome, lo vedo poi sul palco del concertone del 2018, penso che stia diventando popolare, come altri del resto, buon per lui.
Nel 2019 me lo trovo sul palco di Sanremo e devo dire che, nonostante le stecche costanti, ero tra i suoi supporter: quel suo brano Rolls Royce (da cantare rigorosamente come lui, “Rollz Rois”) non mi dispiaceva neppure, lui con quel look più emo che dark ma comunque elegante, una sorta di Vasco versione 2.0, avevo pure sorriso sulle polemiche da vecchi bacchettoni che il presunto significato della canzone avevano scatenato. Il mio idillio, però, si è incrinato poco dopo e la mia insofferenza è andata aumentando proporzionalmente alla sua sovraesposizione, l’ipertrofia lauriana in ogni dove. Un po’ perché il suo disco 1969, presentato come un omaggio al rock, agli eventi e alle icone di quel mitico anno, mi ha profondamente deluso, devo ammetterlo. Forse non l’ho capito io, visto che in tanti hanno inneggiato al capolavoro: giuro che per tigna l’ho ascoltato quasi più di altri che mi piacciono, proprio per comprenderlo ma niente, non posso farcela. Ma non è un problema, i gusti sono gusti e poco male se io comincio a sentire odore (non dico puzza) di montatura.
Pochi mesi dopo, comincia a scrivermi mail – cioè non solo a me, alla stampa, per annunciare un nuovo progetto musicale, questa volta dedicato agli anni Novanta. Curioso, proprio nell’anno in cui le Spice Girls (senza Posh) fanno un mini tour-reunion, i Backstreet Boys pubblicano un nuovo album (e una data in Italia), insomma quando la nostalgia per i Nineties si fa più acuta che mai. Chiamiamole coincidenze, illuminazione artistica, ispirazione, non so. Achille pubblica il primo singolo (una sorta di brutta campionatura di Be my lover di La Bouche) in autunno, mentre conduce l’Extrafactor dell’edizione più noiosa di sempre di X Factor – deludendomi di nuovo: descritto come late night show, è soporifero.
Achille Lauro è nel cast anche di Sanremo 2020, ed è proprio durante Festivàl di quest’anno che comincio a scalpitare nei confronti di colui che tutti definiscono artista e a me sembra più che altro un genio del marketing – quindi sì, in un certo senso artista lo è davvero – supportato da un giro di euro che (mi) fa girare la testa, insieme a tutto ciò che mette in gioco. I problemi sono tanti, a cominciare dal dispetto di ricevere mail firmate da lui che mi sembrano l’ultimo atto di un corteggiamento nei confronti della stampa (che peraltro aveva già ceduto al primo appuntamento, se vogliamo).
Ogni sera, prima dell’inizio, il suo ufficio stampa provvede a inviare video di preparazione e spiegazione dei personaggi che, serata dopo serata, il buon Lauro mette in scena sul palco dell’Ariston, con costumi firmati Gucci. Scomoda il San Francesco d’Assisi di Giotto, lo Ziggy Stardust di David Bowie – sbagliando riferimento del costume verde, indossato in Life on Mars dall’album Hunky Dory, un anno prima di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars– , la Marchesa Luisa Casati Stampa, Elisabetta I d’Inghilterra, condendoli con estratti dal suo libro Io, Amleto, tra monologhi contro la violenza di genere, degli stereotipi e in rappresentanza del gender fluid.
La canzone in gara, Me ne frego, suona come Rolls Royce, sempre come un Vasco 2.0, sempre stonato e con rime che più di un brainstorming da poeta maledetto sembrano una lista con citazioni messe lì a casaccio. Dalle provocazioni accolte in polemica nel 2019, all’assurzione di Achille Lauro nel 2020 come Artista con la A maiuscola, idolo della stampa e delle folle, simbolo di pansessualità, etc, è un attimo. Un attimo che, ahimè, dura da febbraio.
Concluso Sanremo (con letterina di ringraziamento), prima di cominciare la campagna per il nuovo album, c’è stata la querelle discografica: a una settimana dal Festival, viene annunciato che Achille Lauro è il nuovo Chief Creative Director di Elektra Records: peccato che l’etichetta sia della Warner Music Italy, mentre lui è sotto contratto di esclusiva con Sony, che immediatamente lo rivendica. Scoppia una guerra combattuta a suon di comunicati stampa e annunci roboanti, risolta poi con un accordo tra la Sony e la De Marinis srl, società dello stesso Lauro e gestita dalla madre. Già la famiglia: a supporto dell’immagine di un Rebel Rebel (cit. Bowie, ma magari!) ci mancavano giusto i fiumi di parole e interviste per descrivere la sua adolescenza ribelle e i rapporti complicati con i genitori.
Poi è cominciata la campagna di lancio di 1990 mentre lui, Achille Idol sui social (nomen omen) è ormai un Dio e come tale si fa raffigurare (del resto, «Dio c’è» è una delle sue frasi di rito, cosa che mi fa sospettare un delirio di onnipotenza) e pubblica una canzone, 16 marzo – nuova versione di C’est la vie, perché per quel che mi riguarda Lauro ha fatto due canzoni: Rolls Royce e C’est la vie (per la quota ballata romantica), che ci propina come pezzi nuovi cambiando testo e titolo di volta in volta – dedicata a una ragazza. Non che sia necessario non essere etero per diventare icona LGBT+ però un po’ di coerenza, almeno nei testi, non sarebbe male, invece le storie d’amore cantate da Lauro sono “le solite”, non toccano i temi di cui si erge a paladino.
Proprio qui casca l’asino o, meglio, scatta il rilevatore di montatura: fumo ce n’è, tantissimo e anche ben congeniato, gliene do atto, ma la sostanza, ovvero, la musica? Quello che non torna è proprio l’arte in cui Achille Lauro dovrebbe eccellere e in cui invece è carente: i testi sono banali, le melodie sono praticamente le stesse e, diciamolo, è pure stonato. Altro elemento che avvalora la mia idea per cui arriva prima l’immagine della musica è il videoclip di Bam Bam Twist, con Claudio Santamaria e Francesca Berra che riproducono la celebre scena di ballo di Pulp Fiction. Peccato che nella canzone (la solita d’amore, di lui innamorato e sofferente per lei) si parli appunto di Tarantino, De Niro, gangster movie, mentre il pezzo viene lanciato in quota anni Sessanta, un «il Twist, l’evoluzione sexy e sensuale dello Swing».
Intanto ai primi di luglio, mese del suo 30°compleanno, lancia l’ennesimo tweet: "Ho firmato il più importante contratto discografico degli ultimi 10 anni. Dormivo su un materasso per terra, adesso scelgo in quale stanza passare la notte e con chi. Sto lavorando a 2 album. Con il primo ci divertiremo, con il successivo cambieremo la musica italiana". E io ho paura, soprattutto per il modesto riferimento al secondo disco.
Il primo, viene svelato pochi giorni dopo, è 1990, di cui dai social scopriamo che sarà un album di cover di hits anni 90 che interpreterà con «amici vecchi e nuovi»: Be my lover di La Bouche, Blue (Da ba dee) degli Eiffel 65, Scatman's Worlddi Scatman John, Sweet dreams (Are made of this) degli Eurythmics (in probabile versione di Marilyn Manson, sai che novità), Me and you di Kenny Chesney e The summer is magic di Playahitty. Dopo aver posato in versione Britney Spears debuttante e proposto un tamagochi brandizzato Lauro, svela la cover, che lo raffigura come una Barbie, iconica bambola Mattel, naturalmente in linea con la cultura arcobaleno di cui cavalca l’onda: mutande di lurex rosa, a torso nudo tatuato e seduto sulla macchina fucsia a gambe aperte, con stivaloni di pelle nera da mistress queer.
A me, però, ricorda piuttosto le Bratz, bambole nate nel 2000, con cui non ho giocato per ragioni anagrafiche ma di cui ho sentito parlare proprio per la loro immagine un po’ più “forte” rispetto alla tradizionale Barbie. Insomma, Achille Lauro non sta inventando niente. Non colgo provocazione in qualcosa che tanti altri artisti, da David Bowie a Elton John a Madonna e Lady Gaga hanno già compiuto, supportando però l’iconografia scelta con sostanza musicale. La differenza non sta nella forma, ma nella sostanza. Sorprendimi Achille, fammi canzonette senza tutto questo battage iperbolico, va bene pure se non impari l’intonazione. Però, ti prego, su tutto il resto, anche meno.