Oggi sarò lungo. No, scherzo. Non nel senso che non sarò lungo, figuriamoci, ma nel senso che lo sarò solo oggi. Lo sono sempre. Parto quindi da lontano, anche qui, un classico. Sono riuscito nella vita a schivare tutte le chat di classe dei miei figli. Ne ho quattro, stiamo parlando di un sacco di chat di classe. Mia moglie, che mi conosce, ha ben pensato di tenermene fuori, così che io non facessi danno. Non sono invece riuscito, negli ultimi mesi, a finire dentro tre o quattro chat assai più malefiche, con dentro persone che in qualche modo hanno a che fare col mio lavoro. Una è diventata suo malgrado (non direi affatto suo malgrado, in realtà, ma era per creare una sorta di climax) famosa, quella della "Conferenza stampa di Morgan", ora tramutata in "conferenza stanca". C’è ovviamente Morgan, e ci sono circa centotrenta giornalisti o addetti ai lavori. Io non sono un giornalista. Non sono un pubblicista. Scrivo per giornali, magazine, siti, badate bene alle parole, da oltre venticinque anni, ma mi sono sempre tenuto fuori da un club che avesse me tra i suoi iscritti, per dirla con Groucho Marx. No, in realtà aborro, citazione, gli albi professionali, e non credo di essere un giornalista, sono uno scrittore e critico musicale i cui pezzi vengono da lungo tempo pubblicati da giornali, magazine e siti. Le parole, dicevo. Eccoci. Dentro quella chat c’è Morgan che lancia temi, più o meno a fuoco, e ci sono alcuni, non troppi di chi vi è inserito, che ne parlano, quasi sempre in toni idolatranti. Io non ho mai lasciato un commento, se non in due occasioni. Durante la conferenza, per sottolineare come ci fosse sempre Mario che sta scrivendo, dove Mario era Mario Adinolfi, fatto curioso che ha accompagnato le oltre tre ore di surreale esperimento, e recentemente, per inserirmi in un dialogo a due tra Morgan e Marinella Venegoni, quando quest’ultima diceva come non ci fosse nessuno che ha più a voglia e il coraggio di fare recensioni che non siano genuflesse, lo dico con parole mie, io a sottolineare che qualcuno, io, sottinteso, c’era. Proprio in quel lungo pomeriggio di chiacchiere, spesso egoriferite, è intervenuto un altro decano del giornalismo musicale, il quale ci ha tenuto a sottolineare lo stato dell’arte del giornalismo, musical e non, sottolineando una netta differenza tra giornali, quindi la carta, e i siti. Lo ha fatto sottintendendo che i giornali fossero cosa seria, o almeno un tempo seria, dando quindi per scontato che i siti non lo siano e non lo siano mai stato. Di qui il suo constatare uno stato di decadenza attuale del sistema informativo, certo con una evidente nostalgia per il passato, e con una legittima rivendicazione per il proprio essere free lance con la schiena dritta.
Distinguere tra siti e giornali. Passo a parlare di questo. Un argomento che reiteratamente salta fuori, e che, fossi un ventenne, mi farebbe gridare divertito “Ok boomer”, così, senza virgole. Perché pensare che oggi i quotidiani siano cosa diversa dai siti fa ridere i polli, per usare un’espressione d’altri tempi, tanto quanto lo fa pensare che le radio siano cosa diversa dall’attuale sistema musicale, paragone non casuale. E perché continua a dare alla carta, nel senso di chi scrive e chi pubblica sulla carta, un valore e una valenza che in realtà non ha più da tempo. Parliamo di numeri? A me i numeri, nel senso di chi dà troppa importanza ai numeri, fanno cagare. Non mi interessa, perché non ritengo che numeri e valore vadano a braccetto, sempre né quasi mai. Però in genere chi si sente parte di una elite parte dai numeri, può dire certe cose perché conta, e il contare fa sempre riferimento ai numeri, è lapalissiano. Tempo fa, parecchio, mi sono trovato a fare una non troppo simpatica chiacchierata con il capo di una agenzia di promozione stampa riguardo i numeri. Mi faceva notare, forse dovrei dire pesare, che io non ero parte del suo cerchio magico, ci eravamo formalmente presentati solo pochi minuti prima, pur operando io nel settore da un bel pezzo, perché non ero tra quelli che facevano numeri rilevanti, così mi aveva detto. Ai tempi scrivevo per il sito del Fatto Quotidiano, giornale col quale avevo ripreso l’attività di critico musicale con cadenza periodica, lì quotidiana, dopo qualche anno nel qualche l’avevo praticato solo in libri e in radio. Quando mi ha detto questa cosa, non ho potuto che invitarla a andarsi a vedere appunto i numeri, fatto che, le suggerivo, avrebbe forse minato le proprie certezze. Pensare, dicevo, che i quotidiani di carta, nel cerchio magico erano presenti solo quelli, facessero ancora più numeri del web era naif, oltre che fuori dal tempo, e pensare che anche a parità di numeri, parità che da tempo non c’era, a favore del web, la gente andasse in edicola a comprare, che so?, il Corriere, per leggere un articolo di musica, fatto che invece avveniva con una certa puntualità sul web, dove la gente cercava e leggeva esattamente quel che voleva leggere, era appunto arcaico, superato e sepolto. Di fatto, di lì a un paio di giorno, la signora in questione mi ha proposto di intervistare un altro dei pezzi da novanta nel suo roster, fatto che attesta che i numeri, ahinoi, erano dalla mia. Torno alla chat di Morgan, vi avevo avvisato che sarei stato lungo. Il giornalista di cui sopra ha sottolineato come ci sia una differenza, semplicemente allestendo una contrapposizione, loro e noi. Se quando quel balletto tra me e la signora che gestisce l’agenzia di promozione stampa, è avvenuto il discorso poteva forse essere ancora nebuloso agli occhi di qualcuno, anche di una signora che gestiva una agenzia di promozione stampa, fatto anomalo, oggi tutti sanno che i numeri dei quotidiani e dei magazine di carta sono ridicoli. Mentre l’online impera. Poi, certo, si potrà dire che quotidiani e magazine sono a pagamento mentre spesso i siti no, quasi sempre, e che quindi c’è una differenza sempre e comunque, ma a supporto di chi scrive sul web c’è la certezza di chi legge cosa, e anche i tempi di lettura, attenzione. Scrivo come scrivo, lo sapete perché siete arrivati fin qui, anche non foste mie lettori abituali, ci avrete messo qualche minuto. Il tempo di lettura medio di un articolo online è in genere sotto i ventotto secondi. Poi scatta la disattenzione. Io ho tempi di lettura in genere che vacillano tra i cinque e i sette minuti. Non perché scriva molto, il bello di leggere qualcosa che non si è pagato è che lo si può interrompere senza neanche provare sensi di colpa, né perché io la tiri per le lunghe prima di arrivare al punto, è chiaro che il punto non sta nel momento nel quale l’argomento presentato nel titolo viene esplicitato, solo chi ha serie difficoltà di comprensione del testo potrebbe pensarlo. Credo dipenda dal fatto che pretendo qualcosa che il lettore medio magari non è disposto a dare, l’attenzione appunto, e chi invece me la concede è disposta a stare a quel patto tacito tra chi scrive e chi legge che vuole chi scrive a dettare le regole, e chi legge a accettarle senza opporre resistenza. Quindi un articolo su un qualsiasi quotidiano, specie un articolo che parli di musica, farà in media assai meno lettori di un mio articolo in cui parlo di musica, e quasi sempre farà quei numeri per caso, perché nessuno, su questo credo di poterlo dire con certezza, compra un quotidiano per leggere le parole di chi è in quella chat. Mai. C’è poi un altro aspetto, rilevante. Da che i siti, appunto, hanno fatto irruzione nel nostro quotidiano di lettori di notizie o di commenti o di editoriali, chiamateli come volete, i quotidiani cartacei, che hanno sempre una versione online, hanno iniziato a seguirli a ruota, nella velocità di informazione, velocità che spesso, va detto, porta a strafalcioni e inesattezze che nulla dovrebbero avere con il giornalismo, tipo che quasi mai si controllano le notizie, spesso riportate perché tirate fuori da qualcun altro, magari anche dai social, e anche nel simulare quella sequela di articoletti acchiappaclick che a nulla servono se non a generare traffico, un tempo relegati nei colonnini di destra delle homepage, oggi praticamente ovunque. I pezzi acchiappaclick, è evidente, non hanno altro scopo che far entrare il lettore inconsapevole in una pagina dove non troverà notizie, ma cazzate, fatto che lo indurrà a lasciare presto suddetta pagina, abbassando notevolmente i tempi di lettura media. Chi entra in quelle pagine, di media, ci sta tra i quattro e i dieci secondi, fate voi. Immagino, anche io arrivo dalla carta, e ho scritto nei primi anni della mia vita di scrittore e critico musicale che operava per quotidiani e magazine, per testate che facevano numeri pazzeschi, veri, da Panorama a Tutto Musica, testate che facevano oltre il milione di copie alla settimana, la prima, e oltre settecentocinquantamila copie al mese, il secondo, fatto che ci concedeva tempi e agi che oggi sono in effetti impensabili, sempre con uno stile mio, poco giornalistico, e sempre senza voler diventare pubblicista, prima, e giornalista, poi, immagino, però, che per chi ha iniziato a fare il giornalista pensando che fosse una professione nobile, vedere i propri articoli tra un “Chi mangia Nutella è più intelligente” o “Ecco perché oggi le corna sono il vero segno della morte del patriarcato” potrebbe far vacillare le proprie sicurezze. Tant’è, quegli articoli si trovano spesso a fare i conti con la concorrenza di pezzi assai più titolati, quasi sempre soccombendo, con buona pace di chi si sente stocazzo solo perché scrive per la carta. Arrivo al dunque, perché sì, c’è un dunque anche in questo pezzo labirintico e così frastagliato.
Il dover stare sul pezzo, cioè il fatto che oggi gli articoli non siano più frutto di una cernita certosina, un quotidiano o un magazine aveva e ha un numero limitato di pagine, quindi di articoli, con un numero limitato di battute, quante ne entrano nello spazio che in una pagina quell’articolo occupa, oggi a fare quelle scelte è il budget che l’editore riserva alla giornata in corso, ma spesso gli articoli sono pagati così poco da permetterne un numero altissimo, il ricorso a collaboratori che ne scrivono anche decine quotidianamente alla base del crollo della qualità, e quindi della credibilità della stessa, sto parlando di tutti i siti, compresi quelli delle testate che ancora si ammantano del ruolo di credibili e storiche, presto l’AI a spazzare anche quelle figure così sottopagate e sfruttate, temo, il dover stare sul pezzo, quindi, spinge i direttori e gli editori a rincorrere quelle che i social, soprattutto, indicano come le notizie del giorno, quando ero al Fatto Quotidiano mi capitava di ricevere indicazioni da chi si occupa di Seo su quali argomenti affrontare, cioè mi si chiedeva di inseguire i trend topic, e così credo si faccia ancora oggi. Una cosa buffa, i trend topic dovrebbero inseguire le notizie, invece spesso si trovano a dettarle, cioè con il nostro scrivere stiamo sull’onda, invece che provocarla, pensa te. Così capita che su un determinato argomento si scriva più volte anche nella stessa giornata, non solo aggiornando, ma proprio sposando a lato o in avanti o indietro il focus di un argomento, quello “del giorno”. Non mi tiro fuori da questa modalità, pur essendo ovvio che, per come scrivo, non sto mai sul pezzo, ci metto troppo a occuparmene, e spesso non ho proprio interesse a farlo, sono un uomo anziano che guarda alle cose di questo mondo coi propri tempi, e provando a dare una mia lettura di detti argomenti mi prendo agio di farlo anche quando questi sono usciti dalla lista dei trend topic. La fretta, il doverci essere, il fare caciara per attirare l’attenzione di chi ha pochi secondi da dedicare alla lettura, porta spesso a due modalità, il copia incolla dei comunicati stampa, una lettura priva del supporto della verifica di certi fatti che spesso fatti non sono. Faccio un esempio, su tutti, poi arrivo al finalone, qualcuno riprende una singola frase di un’intervista, così, decontestualizzandola. Spesso un’intervista, non che ce ne siano di fondamentali in giro, contiene almeno una o due frasi che sono estrapolabili per fare titoli e finire sui social. Pensate a quella di Gino Paoli sul mostrare il culo, culo che tutti hanno identificato come quello di Elodie, Elodie compresa. Ora, quella frase era parte di un discorso in realtà forse anche peggio della singola frase in sé, perché Gino Paoli è un vecchio rancoroso e ostentatamente privo di morale, nel senso che si compiace di aver vissuto una vita spesso in zona “uomo di merda”, e perché un ottantanovenne forse dovrebbe astenersi a dare una lettura dell’oggi se quell’oggi così smaccatamente dimostra di non averlo capito, il punto è che non si potrà mai allestire un paragone tra la musica di un’epoca votata all’ottimismo e al futuro con quello di un’epoca, la nostra, così apocalittica e dove la musica, tanto per restare al tema, è un continuo “o la va o la spacca”, sarei curioso di sapere oggi gente anche geniale come lui che lavoro farebbe, invece che il cantautore. Di fatto quella frase sul culo ha fatto il giro del web, spesso dando il via a discorsi che con quell’intervista nulla avevano a che fare. E di questi esempi se ne potrebbero fare tantissimi. Ogni santo giorno. Si prende una frase, ci si costruisce intorno un teatrino, lo si dà in pasto ai lettori, che poi ci fanno post e meme. L’argomento, quello reale, quasi mai messo a fuoco, per questione di tempo e spazio, certo, ma anche perché a nessuno o quasi frega il cazzo di approfondire, fatta eccezione per chi, torniamo a bomba, si prende il suo tempo e il suo spazio per farlo, consapevole di poter puntare su un pubblico anche fedele che gli presti fiducia (è talmente vero che i lettori seguono certe firme che ancora oggi, chi mi vuole attaccare, mi accusa di scrivere per un quotidiano vicino ai 5 Stelle o dice che ho visibilità solo perché scrivo per il Fatto Quotidiano, ma io non scrivo per il Fatto Quotidiano da maggio 2017, sei anni fa, solo che la distrazione è grande sotto questo cielo). Eccoci al finalone. Damiano David esce dai Måneskin. Ne avete letto ovunque, anche qui. E ne avete letto a partire da un’intervista che quasi mai viene citata, e che quando viene citata non è mai riportata nell’interezza del passaggio interessato, giusto un virgolettato, spesso a cazzo. Durante l’Allison Hagerndorf Show, infatti, il cantante della band romana non ha escluso a priori l’ipotesi di un suo album solista. Lo ha fatto specificando come la cosa da una parte lo spaventi dall’altra lo stimoli, ma anche sottolineando come la cosa farebbe forse bene alla band, fatto che quindi esclude che un eventuale spin-off significhi la morte del gruppo. Piuttosto una buona uscita. Esattamente il contrario, i Pooh, per dire, hanno avuto questa libera uscita, e sono ancora lì. Solo che dire che forse in futuro i Måneskin potrebbero prendersi un anno di pausa, questo ha detto, parlando in forma ipotetica e anche di un futuro non prossimo, per dedicarsi a progetti che magari con la band non avrebbero comunque a che fare, per poi tornare insieme è assi diverso che dire “Damiano lascia i Måneskin”, quindi ecco il florilegio di articoli. Perché i fatti ci dicono che Damiano è parte integrante della band, il cambio di management ai tempi di Eurovision proprio perché i quattro sono solidamente ancorati tra loro, altro che una pezza per tenerli insieme, Fabrizio Ferraguzzo con loro nell’idea di proseguire insieme quando l’ex manager, Marta Donà, spingeva per uno split. Poi, mai dire mai, capace che i quattro crescendo si mandino a fare in culo, succede, non c’è band che non abbia portato a un odio indecoroso tra i propri membri, ma al momento Damiano ha forse ipotizzato che in un futuro non ben identificato potrebbe provare a fare qualcosa da solo, per cementificare l’idea stessa di band, altro che abbandono. Per dirla con l’ultimo singolo di Francesca Michielin, le solite chiacchiere, gossip che con l’informazione nulla ha ache fare, chiacchiere che sviliscono sì il mestiere di chi pensa che il giornalismo sia qualcosa di serio, qualcuno cui consiglierei di farsi un giro in un qualsiasi bar, metaforico o reale, e sentire che tipo di considerazione la gente ha della categoria, forse solo i professori sono sopra di loro nella classifica della disistima, al pari posto con gli intellettualoni, e che soprattutto fungono da armi di distrazione di massa. Buffo che a dirlo sia proprio io che giornalista non sono e non lo sono perché nulla voglio avere a che fare con chi lo è. Se li conosci li eviti, come in quella pubblicità progresso sull’Aids.