Riconosce che con le nuove generazioni è avvenuta una frattura, ma non rinuncia a voler testimoniare cosa l’ha formato e gli ha condizionato più di metà dell’esistenza. Ci riferiamo a “I miei eroi. Un amore testardo e duraturo” (La Nave di Teseo), il nuovo libro con cui il giornalista e scrittore Pier Luigi Battista ha messo nero su bianco oltre 40 anni di letture e approfondimenti su tre intellettuali come Hannah Arendt, Albert Camus e George Orwell che, “se mai esistesse un paradossale partito degli irregolari del Novecento, ne sarebbero di certo i tre portabandiera”. Proprio oggi che della politica “non frega più niente a nessuno”, che il libro più venduto in Italia è quello del generale Roberto Vannacci (“ma a me fa impressione che siano sempre primi anche quelli di Travaglio e Scanzi”) e che la musica più ascoltata è quella dei Maneskin (“quando li vedo in tv cambio canale”). Ma forse non è un libro soltanto nostalgico, quanto un modo per riannodare i fili di una comunicazione che si è interrotta, chissà perché e chissà come, puntando sulle passioni. L’ex vicedirettore del Corriere della sera e ora editorialista dell’Huffington post, infatti, ci ha spiegato quanto sono attuali figure come quelle dei “suoi eroi”, ancor di più se sullo sfondo riecheggia la guerra in Ucraina e ci si divide sul giudizio sulla Russia, mentre in pochi fra i commentatori, come avrebbero fatto i tre intellettuali presi in esame, ricorda che “non c’è nessun fine giusto che si fondi su una colossale ingiustizia”.
“I miei eroi” è il suo personale tributo a tre grandi intellettuali non allineati: Hannah Arendt, Albert Camus e George Orwell. Perché ha sentito la necessità di ripartire dal loro pensiero?
Per me è stata una triplice folgorazione. Grazie a loro ho modificato i miei codici culturali alla fine degli anni ‘70. Con questo libro spero di aver trasmesso al lettore la passione di una scoperta che si è consolidata studiandoli nel corso dei decenni. Per raccontare, prima, bisogna conoscere bene.
Per poter esprimere le loro idee che cosa hanno dovuto subire?
Stiamo parlando di un metodo che nega la discussione e il confronto delle idee e diventa linciaggio. Hanno resistito e pagato il prezzo della solitudine. Soli contro tutti. Anche con il proprio mondo di appartenenza. Ma hanno continuato a partecipare senza restare equidistanti.
Come hanno fatto a restare integri, come scrive, negli anni “più bui e incandescenti e tragici che hanno insanguinato il Novecento”?
Orwell, che va a sue spese da indipendente a fare la guerra civile spagnola, viene trafitto da una pallottola e rischia la vita, ma questo non gli impedisce di raccontare la verità, anche quella scomoda della sua parte. Cioè quella delle stragi degli stalinisti nei confronti degli anarchici e dei trotskisti eretici. Una guerra civile dentro la guerra civile. Mentre Hemingway in “Per chi suona la campana” tende a suonare la lira, con una sorta di elegia, occultando gli elementi critici, Orwell pensa che sia suo dovere parlarne. “Omaggio alla Catalogna” fece fatica a pubblicarlo, nonostante fosse già un autore molto noto.
Così Albert Camus non si risparmiò nel criticare certe storture a sinistra.
Camus era un antifascista, aveva partecipato alla Resistenza, ma per lui era intollerabile l’esistenza dei gulag dove trovarano la morte centinaia di migliaia di persone. E fu attaccato perché dicevano che era un’anima bella e che quelle storie avrebbero abbattuto “il morale degli operai della Renault di Billancourt”.
Forse quella che pagò il prezzo più alto, anche a livello umano, fu però Hannah Arendt.
Lei ebrea ed esule, seguendo il processo a Eichmann ne contestò le procedure e venne massacrata. Tra l’altro, appigliandosi a un termine che è stato equivocato e manipolato, la “banalità del male”. Non sosteneva che il nazismo fosse banale, ma che Eichmann non avesse nulla della grandezza luciferina del grande criminale, visto che era un banale burocrate che considerava un dovere amministrativo sterminare milioni di ebrei. Nonostante tutto, sia Arendt, che Camus e Orwell tennero duro e per questo li chiamo “i miei eroi”.
Lei ha scritto sull’Huffington post: “Un grande dolore: la freddezza di Israele sull'Ucraina aggredita”. Può essere questa una analogia con il presente?
Ho una grande simpatia umana, storica ed esistenziale per Israele, comprendo che un paese perennemente sull’orlo della scomparsa, circondato da un mondo che non lo vuole, quello arabo, faccia affidamento sulle alleanze e sulla diplomazia per non avere troppi nemici. Capisco anche che faccia dei distinguo tra la Russia e l’Iran, il suo principale nemico. Ma sul piano degli ideali non posso comprendere, perché secondo me vive una sindrome dell’assedio che li acceca. Mandano qualche aiuto, è vero, ma non si impegnano più di tanto. In più si fanno dire qualsiasi cosa da Putin e non reagiscono. Tutto questo mi provoca molto dolore. Assecondando la lezione dei miei tre grandi eroi, se lo penso lo devo scrivere.
A proposito di “processi sommari”, crede che in Occidente sia avvenuto qualcosa di simile per i russi che, dopo il conflitto, non si sono dissociati da Putin?
No, perché in Ucraina è in corsouna guerra asimmetrica, contro i civili. Le azioni militari dei russi, della Wagner o dei ceceni colpiscono ospedali, stazioni dei treni, teatri, dove si massacrano i civili. Ci sono i video delle bombe sui soccorsi e non è accettabile. E se è una fesseria mettere in discussione Dostoevskij, non lo è con un direttore d’orchestra putiniano. È come se nella guerra contro Hitler arrivasse Wilhelm Furtwängler, direttore d'orchestra e compositore tedesco che era un nazistone, a fare un concerto nell’Italia occupata. Probabilmente qualche reazione l’avrebbe sortita. Ma i miei “tre eroi” ci dimostrano che qualunque azione di violenza, anche nella guerra più giusta, come sosteneva persino Simone Weil, si commette qualcosa che altera e sporca l’anima. Così quando Camus dice “preferisco mia madre alla giustizia” intende dire che non c’è nessun fine giusto che si fondi su una colossale ingiustizia. Invece nella retorica bellicista tutto questo viene dimenticato.
Oggi tra i viventi vede qualcuno con lo stesso atteggiamento dei suoi "tre eroi"?
No, nessuno. Forse perché i social hanno rinnovato tecnologicamente la pratica del linciaggio che già esisteva, il tutti contro uno, l’accanirsi contro un singolo. Pensavo che con la fine di un’epoca buia in qualche modo ci sarebbe stata un’evoluzione nel dibattito politico, invece la logica amico-nemico è tornata fortissima. Basta una parola e ti ci impiccano. C’è in giro un odio pazzesco. Un odio delle persone con un nome e un cognome, non solo dei profili fake. Mentre se scrivi un articolo o un libro sei costretto ad argomentare, sui social vai dritto all’insulto. Forse l’unico era Milan Kundera, scomparso recentemente, che aveva scelto la strada del silenzio rispetto al dibattito pubblico. E forse non a caso.
A proposito di libri, le fa impressione che quello del generale Roberto Vannacci sia il più venduto?
A me fa impressione anche che nei primi posti in classifica ci siano sempre i libri di Marco Travaglio e Andrea Scanzi. Non farei troppo lo schizzinoso. Dopodiché, bisogna pensare che se gli suoni la grancassa qualcuno si interessa a lui. “Quello è il mostro” si continua a dire e la gente va a vedere se è vero. Io eviterei le demonizzazioni eccessive proprio per evitare che l’attrazione per il “demoniaco” prenda il sopravvento.
Tornando al suo libro, c’è un capitoletto che si intitola “La giacca stazzonata”. Un termine che è tornato in auge dopo il racconto di Alain Elkann su Repubblica che ha definito i giovani dei “lanzichenecchi”. L’ha stupita?
All’inizio pensavo fosse una sorta di satira, poi ho scoperto che parlava sul serio e sono rimasto basito che non sapesse che per arrivare a Foggia fosse necessario passare da Benevento. I “lanzichenecchi” mi hanno fatto molto sorridere, mentre il comunicato del comitato di redazione di Repubblica mi è sembrato un po’ esagerato per un articolo di Alain Elkann, forse perché si tratta del padre dell’editore.
Prendendo spunto dai “lanzichenecchi”, qual è il suo rapporto con i giovani?
Ho capito che è avvenuta una frattura con le generazioni precedenti. Qualcosa si è rotto nella trasmissione. C’è sempre stata la ribellione dei figli rispetto ai padri, ma stavolta è più netta. I giornali cartacei spariscono, della politica non frega più niente a nessuno e della cultura del passato si perde memoria. Da una parte mi spiace non partecipare attivamente a questa trasformazione, ma dall’altra mi metto il cuore in pace. Oggi le priorità sono altre, il linguaggio è cambiato e se mi chiedessi quanto mi piace e non piace tutto questo ti risponderei che non mi piace all’ottanta per cento. Ma chi se ne frega, non mi metto a fare il predicatore contro la correzione dei costumi, che sarebbe ancora più ridicolo. Anche mia nonna vedendo il ‘68 ha avuto la stessa reazione, ma io ho solo nostalgia dei libri che ho letto, della musica che ho ascoltato e dei film che ho visto. Non devo aggiornarmi per forza.
Mi sembra di intuire che non ascolta i Maneskin.
Non devo ascoltarli per forza e se li vedo in tv cambio canale. Anche se cambiare canale è ormai un termine antico.
Oggi si “scrolla” su Instagram o TikTok.
Ma chi se ne importa, io sono contento di essere cresciuto con Beatles, i Rolling Stones, Fabrizio De André, Lucio Battisti, Gino Paolo e Ivano Fossati. Così come di aver letto i saggi, che non si leggono più. Nel cinema grazie allo streaming rivedo i film del passato che non vedevo da 40 anni e questo lo preferisco a vedere l’ultimo uscito che so già come va a finire. Non sono rancoroso, constato che c’è stata una separazione. Con una certa civiltà si va avanti, ma con questo libro volevo trasmettere almeno il perché questi “miei eroi” mi hanno condizionato così tanto.
A gennaio ha reso pubblico di avere un tumore, ma ha anche sottolineato: “Non chiamatemi guerriero né eroe”.
Non ne volevo fare una bandiera, mi era venuto spontaneo dirlo quando parlavano di Gianluca Vialli come di “un guerriero”. Tra l’altro in questo momento sto bene, anche se in modo complicato. Però detesto l’espressione “guerra”, perché se muori hai combattuto male? È una retorica devastante per chi vive la malattia. Un conto è incoraggiare, un altro che devi essere un guerriero. Le giornate sono un misto di debolezza, forza, nottate in bianco, medicine e quell’idea che tutto dipende da te non è vera. È un delirio di onnipotenza. La guerra alle malattie si fa con le conquiste della scienza.