Almeno non è una serie su Christian De Sica. No perché dopo (Vita da) Carlo su Prime Video, la produzione a episodi sull'esistenza di Verdone con qualche spruzzata di surrealtà (che vorrebbe essere) comica, l’abbonato a una qualunque piattaforma streaming o simili è pronto a tutto oramai. Dal 28 gennaio sono a piede libero su Sky Atlantic (e su NowTv) le prime due puntate di Christian, aka di un - citiamo da comunicato - “supernatural-crime drama” made in Italy (ovvero nella periferia di Roma, chiaro) che mischia divino, criminalità e profano in un pasticciaccio di citazioni e grida da far rimpiangere un qualunque b-movie. Ma perfino Jesus Christ Vampire Hunter (sì, esiste davvero, scandagliate pure Youtube). Tra delinquenti con le stigmate e tossici all’ultimo stadio in odore di resurrezione, cosa rimane al telespettatore di questo Christian? La voglia matta di riguardarsi Lo chiamavano Jeeg Robot. Perché a questo progetto, nonostante i disperati sforzi di sceneggiatura e regia, a nessuno verrà mai di chiamarlo Jeeg.
Cominciamo col dire che ci dispiace: non che avessimo grandissime aspettative rispetto al poro Christian, ma diciamo che Sky è in genere ultimo baluardo di garanzia lato serie tv. Serie tv che magari non raggiungono sempre il mainstream qui da noi (nemo profeta in patria) ma che restano pur ben fatte nonché apprezzate in altri lidi internazionali. Per non citare l’evidenza di Gomorra che non ha certo bisogno di presentazioni, basti pensare a titoli come Anna (che tutto il mondo ci ha apprezzato e comprato, Giappone compreso) e al recente A casa tutti bene di Gabriele Muccino. Produzione misconosciuta dal pubblico, ma non per questo di qualità minore - anzi -, ecco spuntare anche, nascosta oramai dalle nebbie del tempo la serie Il Miracolo (con un sempre perfetto Guido Caprino a fare i conti con Madonnine piangenti sangue). Bene, Sky con Christian torna al mistery mistico. Ma purtroppo questa volta toppa. Andiamo a scoprire come mai.
Ma prima di tutto, la trama: Christian (Edoardo Pesce), malvivente della periferia romana dedito al recupero crediti con la sola forza del suo saper menar le mani, una bella sera si ritrova con le stigmate su entrambi i palmi e comincia, involontariamente e con suo stesso stupore, a compiere miracoli, dalla resurrezione in giù. Nel cast, anche Claudio Santamaria, nel ruolo di Matteo, diffidente emissario del Vaticano ossessionato dalla ricerca di qualcuno i cui poteri traumaturgici possano essere reali. No perdidetempo e sedicenti santoni acchiappadanari. La storia, liberamente ispirata alla graphic novel Stigmate di Claudio Piersanti e Lorenzo Mattotti edita da Logos Edizioni, si snoda nel corso di 6 episodi con struttura Squid Game: dopo ognuno di essi, che vale come prova psico-fisica, tocca dare un occhio al contatore e vedere quanti telespettatori restano in gioco per il prossimo.
Che unire divino e profano in una vicenda dalle tinte pulp non sia un gioco da ragazzi, lo sanno perfino dalle parti di Prime Video dove hanno pur tirato in piedi Good Omens (proveniente, anche qui, da una saga letteraria) con un cast stellare (su tutti, David Tennant nella parte di un suadente angelo caduto con la passione per i Queen) e, di base, nessuno si è veramente accorto della prima stagione, ancora lì a vegetare sulla piattaforma in attesa di un sequel-Godot (di cui ogni tanto si favoleggia come del Santo Graal ma poi...). Quindi non è che siamo stronzi noi qui in Italia (o almeno, non per questo): mettere su un “supernatural-crime drama” che mischi mistico e il più criminale dei profani è un’impresa quasi impossibile. A riuscirci con tutti i crismi, stiamo andando a memoria, forse solo Dogma (film Di Kevin Smith del 1999 con due giovanissimi Ben Affleck e Matt Damon). E quindi che gli è venuto in mente a Sky?
Gli è venuto in mente di fare il passo più lungo della gamba o, se preferite, dell’arcata alare, e regalarci una serie che ha principalmente un problema di tono. Il tono, del resto, è sempre un problema (da risolvere). Se lo chiami “supernatural-crime drama”, pure uno spettatore con forte dipendenza da Un posto al sole capisce al volo che qui dentro ci sia troppa carne al fuoco. Funzionava così anche in Lo chiamavano Jeeg Robot, certo. Ma lì si era raggiunto una sorta di Nirvana d’equilibrio, forse irripetibile, per cui le scene violente erano assurdamente violente e gratuite, quelle romantiche costruite in modo credibilissimo (con un percorso per arrivare fino a lì, per esempio) e quelle del reparto “locura” davano brio a tutto il resto del cucuzzaro. Christian incappa nell’errore di non settare un tono, appunto: dovremmo sentirci coinvolti da questa scena? Magari addirittura sconvolti? Non si sa, le immagini scorrono, anche brutali, ma non arrivano fino in fondo all'azione fermandosi allo stadio “grattino scontroso” (e tagliela ‘sta mano! - capirete poi -). La “linea comica” poi (fondamentale in una produzione caciarona di questo tipo) è affidata a qualche battuta in romanaccio che viveva e lottava con noi già a La sai l’ultima ‘92 e l’impressione, nonostante qualche schizzo di sangue qua e là, è di ritrovarsi davanti a un acquario. Mancava giusto il, ripetuto, tarantinare (senza averne gli argomenti né la mano) dei delinquentelli che al tavolo di un bar, discettano senza troppo impegno su (non) Like a Virgin di Madonna mentre attendono istruzioni per compier malefatte. Che moonwalk di originalità, signora mia!
Se Il Miracolo (nato dal genio di Niccolò Ammaniti, esattamente come Anna) aveva un tono forse fin troppo serioso (ma se questo lo considerate un problema, citofonate pure a Sorrentino e ai quei capolavori dei suoi Papi, giovane e nuovo), in quel caso si trattava di un prodotto con un’identità (che vi invitiamo davvero a recuperare) e di pregevole fattura. Qui la trama fa a cazzotti, lei sì, con la volontà di fare qualcosa di grande, troppo. E allora annaspa, ci riprova, l’impressione è quella di star lì a fissare qualcosa che affoga nella propria pretenziosità, senza aver altro modo di poterla salvare se non quello di cambiare canale.
Peccato. Peccato perché qui da noi (se escludiamo l’eccelso e sottovalutato Il racconto dei racconti di Matteo Garrone), di riuscito in genere “fanta” c’è solo il Fantasanremo (e ne siamo orgogliosi, per carità). Ah già, e il Fantacalcio. Valeva il tentativo, non ci sono dubbi. Ma se dobbiamo venirvi a raccontare che sia la vostra prossima serie della vita, dovremmo poi correre a confessarci. E di sti tempi, uscir di casa è un atto di fede. Lo stesso atto di fede che richiede Christian: si può proseguirne la visione augurandosi che i prossimi episodi siano più avvincenti. Ma qui sorgerebbe una più che lecita domanda: considerato tutto lo scibile disponibile sulle varie piattaforme, perché insistere proprio su questo raffazzonato titolo qui che prende a destra e a manca (Jeeg Robot, Il Miracolo, perfino Tarantino) con la sfacciata pretesa di essere considerato originalissimo? L’unica, ve lo assicuriamo, è cambiar carrozzone. Kyrie Eleison.