Robbie Williams, british icon del nuovo millennio, ha deciso di mettersi a nudo con una struggente miniserie pubblicata su Netflix, per i suoi venticinque anni di carriera. Divisa in quattro puntate prova a raccontare nel modo più fedele possibile la vita - pubblica e privata - del cantante. Il format è decisamente avvincente, diverso dai canoni in cui generalmente potremmo intendere la docu-serie di una celebrità. Nelle prime scene si vede un Robbie stanco, non più giovane e provato dai molti episodi controversi che hanno caratterizzato la sua vita. È lì, sdraiato nel suo letto, in mutande, una sagoma lontana anni luce dal cantante che tutti siamo stati abituati a vedere tirato a lucido sui palchi più importanti del mondo. Attraverso un computer gli fanno vedere centinaia di backstage inediti che ripercorrono la sua sua lunga carriera. Sono molti gli argomenti toccati durante le quattro puntate dalla durata media di cinquanta minuti l’una: gli esordi come frontman dei Take That (e il rapporto conflittuale con Gary Barlow) i problemi con le droghe, la depressione di chi ha tutto - fuorché la felicità - le relazioni con Nicole Appleton delle All Saints e Geri Halliwell della Spice Girls, il rapporto di amore (malato) dei fan pronti a scaricarti al primo flop e poi a tornare a ossannarti alla successiva hit, l’enorme successo avuto con il brano “Angels”,e molto altro. “È una cosa che si dovrebbe fare forse solo davanti a San Pietro nei cieli questa di passare in rassegna tutto ciò che si è compiuto nel corso dell’esistenza”, queste le parole pronunciate da Robbie Willliams. La superstar, in grado di ottenere faraonici successi fra la fine degli anni novanta e gli inizi del duemila, sembra vergognarsi di ciò che gli autori Netflix gli fanno vedere. Vecchi filmati che, a poco a poco ripercorrono tutta la sua carriere musicale e alcuni momenti cruciali della sua vita privata.
“Il peggior pezzo di sempre”
I veri problemi per Robbie - scopriamo nella serie - incominciano in un particolare momento della sua carriera, durante un timido tentativo di passare dal Pop al Rap con l’uscita del pezzo Rudebox, canzone di punta dell’omonimo album. Su un tabloid, poche ore dopo l’uscita dell’insolito pezzo qualcuno scriverà - riferendosi alla canzone - “La peggiore canzone di sempre”. Una critica, un boicottaggio secondo Willams a cui poi si sono accodati alcuni grandissimi organi di stampa inglese, che gli causò non pochi problemi. Il riferimento al mega concerto di Leeds del 2006 è palese, in cui Robbie venne colpito da un tremendo attacco di panico davanti gli occhi attoniti di decine di migliaia di persone. Uno spezzone importante di puntata che deve far riflettere sull’utilizzo delle parole, sui social e nella vita reale. Un macigno sulle spalle insormontabile, che dopo alcuni anni lo porterà a riunirsi con la sua vecchia band, i Take That, un modo di proteggersi dagli occhi del pubblico, confiderà poi Robbie: “Altre quattro persone intorno a te con cui condividere il peso di quegli occhi puntati addosso”.
Tantissimi fan insoddisfatti dalla serie Netflix
Sui social, a moltissimi utenti la docu-serie non è piaciuta, descritta da migliaia di persone come “triste”, “depressa” e da “evitare se non si è di ottimo umore”. “È un lungo documentario struggente - scrive una donna a più riprese nel suo profilo X, ex Twitter - da non vedere assolutamente se non si è di ottimo umore, perché potrebbe cambiarti, in peggio, la giornata. Nonostante Robbie Williams fosse sempre stato un frontman perfetto, sorridente e mai fuori posto, questa serie Netflix ha portato alla luce alcuni, tremendi, particolari sulla sua vita che mai mi sarei aspettata di conoscere”. Commenti così in rete se ne trovano a migliaia, non solo da parte di utenti delle community e fanbase italiane, ma anche inglesi, americane, spagnole e olandesi.