Come funziona oggi ormai l’abbiamo capito tutti. Le canzoni, quelle che un tempo si reggevano, giustamente, sulla linea melodica, quella che a Sanremo dicevano si sarebbe potuta fischiettare il giorno dopo la finale in strada, o facendo la doccia, oggi si basano tutte solo e soltanto sui suoni. Per questo, non solo per questo ma decisamente anche per questo poi le canzoni le firmano in così tanti, perché a fianco a quelli che hanno appunto scritto la parte melodica, che spesso ormai è divisa tra chi scrive le strofe e chi scrive i ritornelli, ci sono quelli che hanno fatto la base, i producers. E a parte loro ci sono ovviamente quelli che hanno scritto i testi, e se anche qui uso il plurale è perché spesso sono in più di uno, anche qui a dividersi le parti. Il risultato sono canzoni tutte simili a loro stesse, incantabili, e non perché i cantanti siano un po’ tutti come Fedez, incapaci di beccare una nota anche per sbaglio, ma perché nulla da cantare c’è, in assenza di beat e di suono, provateci voi se ne siete capaci a farne qualcun in spiaggia con una chitarra, magari intorno a un falò. Canzoni incantabili i cui testi, spesso incomprensibili non solo per quel vizio della Gen Z di mangiarsi le parole, via le ultime sillabe, tutto schiacciato e biasciacato, ma proprio incomprensibili perché prive di senso, con al massimo una frase una che è la chiave di volta del tutto, la frase memabile, un tempo si sarebbe detto da scrivere sul diario, poi da tatuarsi addosso, oggi è già tanto se uno se la ricorda e la ripete quando la canzone passa in radio.
Potrei ora dilungarmi a fare un lungo elenco di canzoni e suoni e frasi, ma già la vita è dura di suo, specie a settembre quando tocca tornare tutti alle routine nonostante fuori siano ancora trenta gradi, quindi, come è evidente, passerò a dimostrare che esistono eccezioni virtuose, i titoli mica stanno lì perché non sapevamo cosa mettere prima dell’articolo. Eccezioni virtuose che, è il caso del brano e dell’artista che sto per andarvi a introdurre, quella appunto citata nel testo, in qualche modo per rovesciare il discorso proprio da quel discorso parte, facendo della debolezza altrui un proprio punto di forza, come in certe arti marziali. Non ci giro più intorno, perché che Sesso e samba è una mer*a già lo sapete, oggi voglio parlare di Mille e della sua Amare cose complesse. Già dal titolo si intuisce che siamo di fronte a qualcosa di decisamente non scontato. Intendiamoci, anche Sesso e samba poteva darci qualcosa di rilievo, non fosse che chi l’ha scritta manco sapeva che il samba è appunto un genere musicale che col ses*o ha parecchio a che fare, ma qui siamo in un altro campionato, Amare cose complesse, sentite come suona (da dire con la voce di Manuel Fantoni, possibilmente accompagnando il tutto con apposito movimento della mano). La canzone in questione, ennesima perla tirata fuori da quel talento assoluto che risponde al nome di Mille, cantautrice laziale di stanza a Milano che nel corso degli ultimi due, tre anni ha fatto sfoggio della sua maestria inanellando una serie di singoli che Daniel Ek levate, uno dei quali, Sì, Signorina ha anche vinto il contest del Primo Maggio nel 2022, proiettandola legittimamente sotto un cono di luce, cono di luce che ha sfruttato tirando fuori mine quali Qualcosa di stupendo, Touché, Giovane Distratta, Monsieur Malheur, Brava Simona, Sbagliare sbagliare, 146, vado a memoria per cui qualcosa dimenticherò, la canzone in questione, dicevo, è giocata come spesso le capita su sonorità che affondano le radici negli anni Sessanta, sentirla cantare ricorda le grandi dell’epoca, Patty Pravo, Caterina Caselli, mai dimentica dei decenni successivi, la Raffaella Carrà degli Ottanta è sempre un faro a illuminare la sua strada, anche stavolta molto chitarristica, con una sensualità festosa e gioiosa che potrebbe addirittura indurti a superare la saudade tipica dei settembre da adulti. Una mina, appunto, di quelle che le ascolti e ti si inchiodano alle pareti del cervello, una immagine questa che piacerebbe al Federico Zampaglione nei panni del regista dell’orrore, una melodia orecchiabile che sì si potrebbe cantare in spiaggia, con la chitarra davanti a un falò, ma dovrebbe essere in compagnia della gente giusta, perché Mille è Mille, e il suo talento è non solo quello di cantare, da Dio, e di scrivere, idem, ma anche di spiazzare l’ascoltatore, portandolo appunto in un mondo altro, quello dei suoi tarocchi, dei suoi look stravaganti, dei suoi video sempre a fuoco, nonostante sia artista indipendente e assolutamente autarchica.
Quindi, ricapitolando, prima della stoccata finale, Amare cose complesse di Mille risponde ai requisiti della contemporaneità, cioè ha un suono riconoscibile e in grado di sostenere la canzone, qualcosa a metà strada tra i Sessanta, italiani ma, toh, anche di certi Velvet Underground domenicali, ma ha anche una melodia incisiva, e questo è decisamente roba d’altri tempi, lei ha la voce, e qui siamo davvero su altri pianeti, e sa come usarla, senza ricorrere a autotune o trucchetti buoni per chi cerca scorciatoie. E poi c’è il testo. Una canzone che si intitola Amare cose complesse, mi sono detto prima di ascoltarla, conoscendo comunque lo stile di Mille, non può mica avere un testo scialbo, banale. E avevo ragione. La canzone è anche su questo profilo una mina, che accontenta chi cerca la frase memabile, ma anche chi vuole un testo che sia tutto forte, con un ritornello, però, che potrebbe buttare giù le mura di Gerico, e la citazione non è qui per sbaglio, che non stiamo mica a pettinare le bambole. Perché quel “se ti prendo le mani/ tristezza vai via di qua”, frase che sarebbe stata bene in bocca a una Audrey Hepurn, ecco che arriva la deflagrazione senza sconti del refrain, palla alzata da un “ah-ah-ah” pensato ad hoc, “Sai che un posto sicuro/ sarebbe il mio culo/ lo so è divisivo/ ma è già a metà”. Bomba. A precisa domanda l’artista ha risposto che stavolta la canzone non sarà accompagnata da un video, e la curiosità di sapere come l’avrebbe raccontata da un punto di vista visivo è lì, inevasa. Resta che Amare cose complesse è una gran canzone d’altri tempi, e per paradosso, anche di questi tempi qui. Una canzone che ci dice che è sempre bene non giudicare la vita degli altri, e che non tutto quel che è divisivo è necessariamente da guardare come sbagliato. Per tutti quelli che in tempi di tempesta come questi cercando un porto sicuro, o un posto sicuro.