Che Guevara è stato una brutta persona. Una persona pericolosa che oggi chi a sedici anni sfilava con la spilletta del Che (grafica basata sulla foto di Alberto Korda), magari con gli Studenti medi o qualche altra realtà liceale, se volesse usare un po’ di logica, condannerebbe come condanna Netanyahu (e invece non ci pensano più di tanto; un po’ come fanno con la Russia di Putin, magari è poco interessante parlare di Ucraina dove a morire sono magari degli europeisti) fuori dalle università. Il Che rivoluzionario era quello delle prigioni di La Cabana (fine anni Cinquanta), dove diede l’ok per uccidere centinaia di dissidenti o ex funzionari del regime di Batista senza un giusto processo. È quello delle Umap, i campi di lavori forzati dove si schiavizzavano omosessuali e preti cattolici. Un uomo sostanzialmente disinteressato ai diritti civili, oggi romanticamente ritratto come un personaggio complesso, da contestualizzare. E invece, contestualizzando, complicandolo, finisce per essere idealizzato.

Anche gli esercizi di revisione storica della figura del Che al massimo mirano a cancellare l’idea di un combattente fiero e coraggioso, per restituirne l’anima profondamente umana, il sentimento. Un po' come il Pacciani-meme che scrive poesie. Che Guevara attraverso gli occhi di un poeta d’amore come Neruda. Il comunismo sentimentalizzato. È quel che fa la mostra sul Che a Bologna, Tú y todos, al Museo Civico Archeologico, ma lo fa meglio di molti libri e molte altre mostre. Oltre duemila documenti tra foto audio e video inediti, un percorso ragionato che mira a evidenziare il lato umano del comunista, non quello del generale spietato, del rivoluzionario leninista, ma quello dell’appassionato Don Chisciotte. Così si deve entrare nel suo modo di pensare, fin dal momento della conversione, quando, rientrando in Argentina dopo un viaggio, schifato dai lustrini hollywoodiani, dal sogno americano, inizia a sognare un’alternativa per gli ultimi, i più poveri, i diseredati del Sud del mondo (in quel caso del Sud America). Scopre Lenin, ma solo come conseguenza di un sentimento morale più profondo, formatosi sull’esperienza diretta. Alimentato attraverso i viaggi in motocicletta (la Norton) e in bicicletta. Sclerotizzato nell’omicidio. Interroto dal suo assassinio. Una vita costellata di romanticismo ma soprattutto di fanatismo, di convinzione scambiata per eroismo e di mestizia umana che oggi andrebbe storicizzata, accettata (e non sono contestualizzata per poterla tollerare).

Sta di fatto che, all’inizio della mostra, subito dopo la prima parte dedicata agli anni giovanili, si deve, per poter accedere alla galleria agghindata e scura, superare una linea gialla, come in stazione. E finisci che, a non dar retta agli altoparlanti che ti intimano di non oltrepassarla, a voler cioè proseguire, uno finisca sotto un treno, una lavatrice di nostalgia e ritratti che vorrebbero darci indietro un Che sentimentale, fragile, malandato. Malato pure. Forse perché morto, per pura coincidenza, in questi giorni, rimanda un po’ a Papa Francesco, debole di salute fin dall’infanzia, anche operato al polmone, passionario convertito alla causa degli ultimi, tanto ha viaggiato, tanto ha detto, tanto è stato frainteso, nel bene e nel male. Nel bene, in particolare, proprio come il Che, Papa laico di un comunismo dei vent’anni. Ma cosa di umano, di davvero umano, ha lasciato Che Guevara? L’orrore per la ricchezza a scapito dei poveri? La falsa equazione che il capitalismo sia un modello a somma zero, dove chi vince, vince perché altri perdono, o come avrebbe detto Marx, dei re che son re perché i servi son servi?

Sarebbe bello provare a capirlo a partire dalle parole della sua primogenita, Aleida Guevara, incarnazione della sua eredità umana, collaboratrice del Cento studi (di interesse culturale per l’Unesco) a L’Avana da cui sono tratti i documenti della mostra. Lei, che porta il nome della madre, Aleida March, nel 2021, in un’intervista a La Stampa disse un paio di puttanate particolarmente istruttive. La prima: i dissidenti cubani? “Se rispetti il popolo cubano, nessuno ti tocca. Ma se ricevi soldi dall' estero per destabilizzare il Paese, allora vai in carcere”. La seconda: la democrazia? “La parola arriva dal greco, significa ‘potere del popolo’. Nella nostra isola il potere è nelle mani del popolo. Il partito comunista è l'avanguardia del popolo e rispetta le decisioni prese dalla gente. Finché sarà così non ci sarà bisogno di elezioni”. Questa idea di democrazia, tanto disumana, che risponde a un’ideologia che non si pensa fallibile né sentimentale, ma meccanica, verticista, violenta, è il grande rimosso di una mostra suggestiva che i critici d’arte dovrebbero giudicare, non io, il cui messaggio è apologetico. Infragilire l’eroe non per disperderne il lascito sanguinario, ma per iniziare a dimenticarlo. Il Che, oggi pura icona, è giusto che sia ricordato come un essere umano. Un Papa laico, si è detto, a cui si perdonino anche le Crociate comuniste.
