“Se te la devi fare addosso, accadrà probabilmente sull’uscio di casa”. Wonderfuck, di Katharina Volckmer, edito da La Nave di Teseo, è un tentativo romanzato, comico e tragico, di rispondere a una domanda: cos'è davvero la perversione? Jimmie, il protagonista, lavora in ufficio come troppi, in cui “i membri del team potevano essere identificati da un elemento della loro identità aziendale, le felpe con cappuccio che erano costretti a indossare a eccezione dei team leader e dei manager, a cui veniva concesso di godere degli agi di una vita civile, mentre tutti gli altri sembravano e si sentivano come dei Teletubbies”. Il contesto è quello di un call center, simbolo dagli anni zero in avanti del lavoro depersonificato. Un cubicolo, un computer, cuffie e microfono. Un gruppo solitario di persone chiuse in un capannone, la parola senza comunicazione. L'unica vera interazione è la vendita, l'unico vero significato il risultato. Chiamiamola alienazione. La catena di montaggio del Duemila, dove non ci si sporca le mani ma il cervello, dove il supervisore è una figura universale: “Il tizio incazzato dai capelli rossi”.

“Jimmie. Sei dentro? Sono Simon.” Certo che era lui. Di indole naturalmente ostile nei confronti dell’illecito, Simon stava saccheggiando i loro ultimi scampoli di privacy, sospettando ci fosse del piacere lì dove lui voleva soltanto vedere dello sforzo. Era sempre pronto a mettersi carponi per contare il numero di gambe dentro a un cubicolo, e Jimmie odiava il senso di colpa che ne derivava. Come se il suo corpo occupasse troppo spazio, come se Simon avesse il diritto di ispezionare i suoi desideri. E non c’era nemmeno dell’acqua fredda per rinfrescarsi gli occhi. Perché in questi cazzo di cubicoli non c’era un lavandino, uno specchio e un minimo del lusso di cui gli toccava leggere tutto il giorno nelle descrizioni degli hotel? “Scusami. Esco tra un minuto.” “Lo sai che devi chiedermelo prima di fare una pausa, vero? C’è molto da fare oggi e non possiamo permetterci che la gente faccia pausa nello stesso momento.” Simon è il capoufficio, e in quanto tale sorveglia i dipendenti fin dentro al cesso. Parossistico? Non troppo: capita davvero. Negli uffici come nelle fabbriche. Sorvegliare e punire, come diceva Michel Foucault a proposito delle carceri. A latere, o centrali, le perversioni sessuali dei lavoratori, che poi sono una possibile chiave di lettura del romanzo.

La dialettica delle prospettive è potente, e porta a una domanda: chi è davvero perverso? Il rigore totalitario del lavoro, o i sotterfugi reconditi delle libertà sessuali, da preservare nell'intimità del cesso? “Questa volta è qualcuno della carta igienica? Magari imparerai a squirtare su un doppio velo di morbidezza al profumo di pesca”. È Jimmie che si presenta in ufficio col rossetto di sua madre (vi ricorda mica Made in Italy di Rosa Chemical a Sanremo?), o il suo capo che bussa alla porta del cesso per una pausa non autorizzata? Chi è malato di lavoro, chi di sesso: le due realtà coesistono, e una è il contrappasso dell'altra, nel momento in cui vi si identifica. Per farla più facile: sono verità reciproche. Chi pensa il lavoro come evasione dalla realtà, chi si chiude in bagno per evadere dalla realtà del lavoro. Bisogno, pulsione, necessità. Comandare è meglio che fottere, diceva il proverbio. Punti di vista, o posizioni, in tutti i sensi possibili. Tra le righe, le provocazioni e il linguaggio esplicito di Wonderfuck, c'è anche questo. Perché la filosofia non cade mai lontano dal sesso.

