Diffida dai film senza aspirazioni, ma diffida ancora di più dai film che si nutrono solo di essere. Frankenstein di Guillermo del Toro, ora su Netflix, è un film di quest’ultimo genere. Secondo alcune indagini i ragazzi della Gen Z preferiscono film lunghi, di almeno due ore e mezzo, film evento, che si attendono per mesi e di cui si potrà parlare per altrettanti mesi.
Infatti negli ultimi anni, forse per assecondare anche la moda delle serie, i film sono diventati mediamente più lunghi. Fin qui tutto bene, il problema è un altro. Un tempo esistevano film del genere ma restavano comunque forme di intrattenimento. E Guillelmo del Toro era uno dei campioni in questo campo. I suoi film, stimolanti ma divertenti, sono diventati dei cult. Da Hellboy a Il labirinto del fauno, passando per La spina del diavolo e il suo film d’esordio, Cronos, presentto persino a Cannes. Del Toro è riuscito a costruire un immaginario colto, alto, ma suggestivo, dinamico. In una parola: brillante.
E allora cos’è successo? Che si invecchia, si diventa più saggi, si cercano le “svolte”. Una di questa è arrivata con La forma dell’acqua, con cui infatti ha vinto l’Oscar. È sempre Guillermo del Toro, ma stavolta la profondità toglie qualcosa alla favola. Chiamiamola magia. È tutto molto poetico, ma dov’è quella strana, sublime, romantica oscurità che sembra fare il verso al mondo? E da questa svolta che nasce Frankenstein, l’all-in di del Toro.
Film lungo, due ore e trenta, in cui si alterna il racconto in prima persona di Victor Frankenstein, il “creatore”, e quello della “Creatura”. La struttura è classica, per del Toro quasi epistolare, e dovrebbe trasportarci nelle atmosfere del romanzo di Mary Shelley. Il problema è che non sempre quello che funziona sulla pagina funziona sullo schermo. Per semplificare: quando leggiamo un romanzo siamo soli, e fungiamo da prisma della scrittura, filtrando e lasciando passare la luce in un certo modo che si intona alla nostra sensibilità.
Il film dovrebbe dimostrare l’importanza del perdono di un figlio verso il padre, quanto sia importante confrontarsi con il proprio senso del limite, che valore abbia la nostra finitudine (la Creatura non può morire e questo genera dolore); ma ci insegna anche quanto sia importante la curiosità scientifica, che, sì, può generare una tragedia, un evento privo di anima (una “cosa”, come dice Victor), o può rendere il mondo più complesso, più misterioso, ma anche più vivo (nelle parole con cui il mostro si definisce, “non qualcosa, ma qualcuno”). E forse questo messaggio passa, ma a che prezzo? Quello di convincersi che il vero mostro in questa storia è la durata di un film che avrebbe potuto essere un’ora più breve.
Infine una nota attoriale: il Frankenstein di Jacob Elordi si è trasformato da creatura prometeica, contraddittoria e tragica, a poeta maledetto, bello, sensibile, persino colto. Più che un personaggio gotico o horror, il protagonista di un romance da #booktok.