Chissà se imporsi di leggere un libro di un ministro in carica è un dovere della Patria, un obbligo da buon cittadino della Repubblica, un dovere a cui il giornalista culturale, per dirsi tale, deve adempiere. Antico presente – Viaggio nel sacro vivente (Baldini+Castoldi, 2025), poi, è una raccolta di articoli usciti sul Foglio, tra il 2004 e il 2016, dodici anni di neopaganesimo passato di sottecchi di chi oggi è quasi più odiato dagli ultracattolici di destra (che sostengono questo governo) che non dalla sinistra di opposizione. C’è anche da dire che gran parte della sinistra, oggi, uno come Alessandro Giuli non lo capisce. E non per l’eloquio eccentrico, a volte straripante. Ma perché Giuli, come dice giustamente Andrea Caradini nella prefazione al volume, è colto e per questo un caso raro nell’establishment politico attuale. Questi articoli lo dimostrano e dimostrano contestualmente un’altra grande verità intellettuale: che avere cultura, di per sé, non vuol dire niente. E infatti Giuli, in questo libro, pecca di giovanilismo, di dilettantismo, lo stesso di chi, in veste di studioso o di divulgatore (e di entrambe le cose, come in questo caso), si fa prendere la mano dall’entusiasmo e finisce per promuovere non tanto una storia ideale e contraffatta della sapienza e del sentimento politico dei romani, quanto un idealismo storiografico un po’ romantico e un po’ rozzo, che fa sì che il breve itinerario proposto da Giuli risulti buffo, forse un po’ comico.

Si potrebbe dire di Giuli ciò che Giuli dice di Musmeci Ferrari Bravo: “Pensare italicamente significò entrare in contatto con la forza sottile del genio italico issandosi sulla verticale del magistero antico secondo cui la comunicazione con il mistero ineffabile di Roma può avvenire per via d’intuizione folgorante”. È un anti-illuminisimo a metà tra il dionisiaco e l’apollineo, dove cioè la misura (apollineo) è più un termine di paragone, in tensione con una conoscenza orgiastica e allo stesso tempo ermetica, a suo modo confusionaria, mitica, orfica, irrazionale. È da questa tensione, presente, secondo il Nietzsche della Nascita della tragedia nella Grecia che vede Socrate come spartiacque di due età, l’età della passione e quella della ragione, che nasce, pare il culto di Giuli. Così il ministro, che firma il prologo di questi articoli quando già in carica, a fine 2024, ci invita a pensare italicamente, chiedendoci in realtà di pensare romanicamente. Lo snodo cruciale, per Giuli, è nel cesarismo, il primo dei tanti, a cui tutta la grande cultura (di destra?) dovrebbe ricorrere per nobilitarsi un po’, darsi un tono. Alle agrarie e campestri digressioni di Lollobrigida, dunque, si sostituisca il titanismo tragico di Giulio Cesare, il riformatore che uso metodi rivoluzionari, ricorda Giulia citando Luca Canali, la cui morte, anzi, il cui omicidio, era necessario, così come “Troia doveva cadere”. Appunto, non il Cesare storico, quando il Cesare del mito, sovrainterpretato, attualizzato, sragionato.

È in una storia mineraria, filosofica, del passato, che Giuli vede il futuro dell’Italia. Al centro, accanto alla sapienza, una virtù assertiva, che alcuni non stenterebbero a definire patriarcale, il coraggio: “Nelle ossa dei discendenti degli avi antichi palpitano ancora gli elementi sedimentati di arcaiche formazioni magmatiche e minerarie, origine del roccioso coraggio italico. La sfida di questo coraggio sta nel debellare l’eversore, il demone delle macerie”. Non rende giustizia ai fossili, non li lascia fossili, li prende per vivi per buoni ai fini di una nuova propaganda tradizionalista, evoliana, conservatrice, ma non alla maniera inglese, la corrente che secondo alcuni Giorgia Meloni sta provando a fare attecchire. Giuli è al governo un conservatore eversivo, un paradosso vivente, piacevolmente colto, che si vorrebbe elegante (e magari lo è; chi bada a queste cose saprà dirlo). Tuttavia resta, come scritto nella prefazione da Caradini, un “giovane, ha talento, e ha davanti a sé il tempo per attuare questa maturazione che reputo essenziale al bene della Repubblica”. Quale maturazione? Quella che lo spinga nelle braccia dell’illuminismo, del liberalismo della ragione, affinché non cerchi in una genealogia posticcia le tracce di un futuro che, speriamo, possa somigliare invece il meno possibile all’Impero Romano. Ah, la prefazione! La parte migliore (e più recente del libro) in cui uno studioso, che francamente pare preso dall’imbarazzo di dover introdurre un libro di cui forse avrebbe gradito non sentire neanche parlare, fa due cose: la prima, prende le distanze da Giuli, dal suo ambiente politico, dalle sue inclinazioni vagamente spiritualiste e banalotte; la seconda, ricorda a cosa somigli il lavoro di antiquariato (per dirla ancora con Nietzsche) fatto dal ministro della cultura: “Il suo libro va letto perché riporta l’attenzione sulla nostra storia più antica. […] Lo fa estendendo all’oggi la sacralità antica, come si è fatto fino al primo ventennio del Novecento – Luigi XIV voleva discendere da Romolo –, e come si è fatto subordinando la ricerca alla politica del Ventennio fascista: un enorme presupposto che non condivido”. E poi la perculata: “Fa riflettere il sottotitolo di questo libro: Viaggio nel sacro vivente. […] Di sempre vivente nella specie dei Sapientes, io conosco solo il provare emozioni inconsce, l’avere sentimenti subconsci e consci, il parlare una lingua tramite cui pensare, l’avere una consapevolezza narrativa di sé, il conoscere con la ragione e il saper distinguere il vero dal falso e il bene dal male”. Mamma mia, farsi prefare da un illuminista un libro sul revanscismo nostalgico e neopagano… Da premiare, quantomeno, il coraggio. Virtù del pensare italico, parola di Giuli.
