“Il ricordo è di un amico e un interprete molto caldo, vivo, popolare e democratico dell’arte. Negli ultimi 30 anni siamo stati io e lui e soltanto ad avvicinare la gente attraverso i libri e la televisione. Senza dubbio Philippe Daverio ha avuto un ruolo centrale.
Gli altri critici sono stati elitari, ideologizzati e politicizzati pur non facendo attività politica. Lui invece è stato assessore per la Lega a Milano, eppure come critico d’arte, esattamente come me, era sopra le parti. Chi ascolta le cose che io dico può avercela con me, però ascolta un discorso che vale per tutti. Recentemente, era stato persino candidato alle europee per il partito della Bonino, ma ciò nonostante non era un politico. Non faceva politica della cultura come hanno fatto molti critici militanti per acquistare potere. E in questa libertà ha raccontato tutta l’arte, in particolare quella moderna.
Tutto ciò, per avvicinarla a tutti. Quindi, il rimpianto che determina la sua scomparsa non è analogo alle morti di Germano Celant e Maurizio Calvesi, perché loro appartenevano a una storia dell’arte elitaria, ideologica e che quindi riguardava un ristretto numero di persone.
Da oggi a noi tutti manca una voce di narratore dell’arte. Rimane solo la mia. Infatti, per me è un momento particolarmente malinconico, sento di aver perso un fratello. Eravamo sempre d’accordo, sempre in contrasto con questi critici politicizzati che hanno fatto della critica una bandiera ideologica. È stata la nostra battaglia comune.
Lui invece ha rappresentato la democrazia dell’arte. Ha avuto la capacità di far sentire e far capire ciò che la storia dell’arte rappresenta attraverso la televisione e i libri. Non solo una capacità di divulgazione, ma di fascinazione per far comprendere al pubblico che l’arte riguarda tutti e non è una circostanza per pochi”.