Ci sono date, o magari periodi, che non si dimenticano e che però non prendono la forma dei numeri, ma di un qualche evento sportivo che resta impresso nella memoria. Al punto di scandire i ricordi. Dove eravamo quando… Come un mantra che abbiamo recitato un po’ tutti e che, essendo italiani, per molti è legato al calcio. Molti che diventano quasi tutti quando l’evento in questione riguarda la Nazionale. Proprio in questi giorni ricorrono i 40 anni dal Mondiale di Calcio del 1982, quello di Bearzot e di Pertini che giocava a scopone con i calciatori in aereo. Quello che fino al 2006 era rimasto l’ultimo. E sui social, come sempre, è un supermercato di racconti, di foto, di aneddoti, di ricordi legati a quelle partite, all’urlo di Tardelli o ai miracoli di Zoff. E è proprio girovagando sui social che ci siamo imbattuti nel ricordo più bello del Mondiale dell’82, perché scritto di cuore e di nostalgia e firmato da uno da cui non ce lo saremmo aspettato: Paolo Pezzini, capo-ufficio stampa di Aprilia o, per meglio identificarlo, l’uomo a cui rompiamo puntualmente le balle per tutto ciò che riguarda il mondo Aprilia e Gruppo Piaggio. Non ce lo saremmo aspettato non perché non lo ritenessimo capace, sia inteso e lungi da noi un pensiero del genere, ma perché tra due ruote e calcio non sempre c’è un gran legame e, diciamocelo chiaramente, noi che campiamo di motociclette a volte ci vergogniamo pure un po’ ad ammettere che il pallone ha emozionato o emoziona anche noi. Che poi è un vezzo senza senso e ce lo ha dimostrato proprio Paolo con il suo scritto, che vi riproponiamo qui sotto integralmente, spiegando ancora una volta che le emozioni meritano sempre, anche quando non ci sono di mezzo cilindri e pistoni. E magari si finisce pure per capire perché in Aprilia, anche nella comunicazione, spunta sempre una nota di umanità in più…
5 luglio 1982
Partimmo, perché avevamo diciannove anni e perché nell’aria c’era qualcosa di straordinario che stava per succedere.
Contro ogni pronostico avevamo battuto l’Argentina ma vabbé, in fondo a loro le avevamo sempre suonate, anche a casa loro, nel loro Mundial, quattro anni prima. Insomma, ci stava.
Ma ora arrivava il Brasile di Santana, la squadra più bella di tutti i tempi, gente che giocava un calcio sublime, che non ci si fa a spiegarlo ora, che teneva Junior a fare il terzino perché in mezzo c’erano già Zico, Socrates, Falcao e Cerezo. Pensare di vincere non era speranza, era un atto di pura fede.
Ma siccome la fede non ha niente a che fare con la razionalità imbarcammo in dieci (dieci!) su una Renault 18 a gas e una Kadett 1.6 Diesel e, senza biglietti, prendemmo la strada per Barcellona. Anzi, l’autostrada verso Genova, ché guardando la cartina si vede bene che andando da Viareggio verso Genova e poi proseguendo sempre col mare a sinistra a Barcellona ci si arriva.
E ci arrivammo. E trovammo chissà come l’hotel dove ci avevano promesso i biglietti. Ma i biglietti non c’erano e fu il portiere a darci la dritta giusta e un foglietto col nome di un parente suo che bagarinava in un bar sudicio vicino al Camp Nou. Mi pare che quei dieci biglietti li pagammo 20mila lire l’uno ma dovemmo comprarci anche quelli di Polonia Unione Sovietica, uno zero a zero palloso nel quale la polizia bastonò un po’ di polacchi per far togliere gli striscioni di Solidarnosch e noi, per solidarietà, perdemmo lì il nostro di nove metri, tutto tricolore, con su scritto Bar Claudio Viareggio.
Dormimmo sulla spiaggia, mangiammo poco e male e ci presentammo al Sarria che bruciava dal sole verso mezzogiorno del 5 luglio. La ressa era spaventosa e già fu un miracolo riuscire a entrare.
In quello stadio piccino e malandato vedemmo coi nostri occhi Paolo Rossi mettere tre pallini sotto l’ala di quella squadra sublime, divina come mai più un campo di calcio avrebbe visto.
Anche dopo un milione di visualizzazioni su Youtube rimangono dei flash incancellabili: il caldo spaventoso e la disidratazione incombente, gli aquiloni e i tamburi dei brasiliani, l’urlo Italia-Italia! sempre più possente e convinto, la fuga di Pablito per il secondo gol che mi parve infinita, il tempo che non passava mai e tutti che urlavano “quanto manca?” perché il Sarria non aveva il tabellone col tempo. E poi il gol di Antognoni, che in molti capirono solo a partita finita che era stato annullato, Eder che sradica da terra un cartello di pubblicità per battere l’ultimo corner in una bolgia mai vista e quella palla fermata da Zoff sulla linea che ci ghiacciò il sangue a tutti. E poi gli abbracci, la festa, il senso di incredulità gioiosa, la sensazione fisica della vittoria, Nando Martellini riconosciuto fuori dallo stadio e portato in trionfo. E il ritorno a casa coi finestrini aperti e le bandiere tricolori a sventolare per 1200 km.
E questa foto che è il ricordo degli amici in una avventura irripetibile…