Niente da fare: nemmeno quindici giorni fa avevo formulato la preghiera che Achille Lauro potesse tirarsela un po’ meno, dandoci un po’ più sostanza e meno pseudo-provocazioni, ma evidentemente è una divinità come tutte le altre, che non ascolta i suoi fedeli, figuriamoci chi non lo idolatra.
E così eccoci qui, a due giorni dall’uscita di 1990, presunto album di cover e duetti di grandi hits anni Novanta, con un nuovo, ennesimo “caso” con protagonista Achille Lauro e il suo delirio di onnipotenza. È lo stesso Lauro che su Instagram denuncia di essere stato vittima di censura – anzi, di «pesante mano della censura» (cit.) – perché il mega-cartellone pubblicitario che avrebbe dovuto campeggiare in corso Como a Milano, non è stato affisso. Il motivo, non direttamente esplicitato, è comunque palese, poiché il nostro Achille ha magnanimamente condiviso la foto in questione, che lo ritrae sempre in versione bambola Bratz (anche se lui vorrebbe assomigliare alla Barbie) gender fluid, crocifisso su una croce fatta di chewing gum rosa, verosimilmente le mitiche Big-Babol.
Il sedicente artista, però, questa volta, non l’ha spuntata, o, almeno, non del tutto: il cartellone è stato evidentemente ritenuto troppo, in compenso oggi non si parla d’altro (in rete) che del “povero” Achille Lauro e della censura che ha subìto da questi brutti cattivi bigotti che non siamo altro.
La cosa peggiore è che la parola censura l’ha scomodata lui e da lì, boom, non se ne usano altre. Questa la didascalia che accompagna lo scatto sul social: «Questa é l’immagine che avreste visto oggi nel maxi- cartellone di Corso Como a Milano ma la pesante mano della censura delle pubbliche affissioni lo ha impedito. Io invece la regalo a tutti voi e come sempre “Me ne frego”». E meno male che “se ne frega”, perché nel caso in cui se la prendesse, cosa succederebbe? Ormai anche quel suo «Me ne frego» è stantio, perché (in teoria) lo sanno tutti, o dovrebbero, che il modo migliore per far parlare di sé è trasformarsi in vittima, e tant’è: niente cartellone pubblicitario – ammesso e non concesso che ci fossero davvero stati accordi in tal senso – in compenso se ne parla il doppio di quello che si dovrebbe.
Ancora una volta, manca anche originalità concettuale: senza andare a scomodare chissà quali esempi di nicchia, faccio un nome soltanto, quello di Marilyn Manson, con particolare riferimento alla copertina del suo quarto album Holy Wood. Era il 2000 e il nostro reverendo Manson posava nudo come Cristo in croce, con tanto di aureola e stigmate, e la sua espressione demoniaca. C’era della coerenza in una rockstar che della provocazione blasfema ha fatto da sempre il suo marchio di fabbrica. Vent’anni dopo, invece, Achille Lauro “sfida” la censura italiana, Paese tradizionalmente cattolico (ma forse paradossalmente meno bigotto dell’America cattolica), come dimostrano i commenti sotto al post: certo, c’è qualcuno che, professandosi cattolico, ammette di trovare un po’ irrispettosa la foto di Lauro, ma la maggior parte dei pareri espressi sono riassumibili con un «che grande, tu sì che sai provocare» in supporto al “dio Achille” vs i bigotti.
Sarà l’afa, a me viene piuttosto di sbadigliare, ma forse è proprio per noia. Al contrario, io me lo figuro, Lauro, quanto se la sta ridendo in questo momento: se c’erano accordi per l’affissione, ha pure risparmiato dei soldi, e in compenso sta avendo la stessa pubblicità, amplificata dall’effetto vittima. Già si è auto-proclamato dio, adesso ha poi specificato di quale divinità, visto l’esplicito paragone con Gesù, morto in croce. Che però, a memoria di lezioni di catechismo, mi pareva meno classista e più democratico: accettava le critiche (cosa inammissibile per Lauro) e, soprattutto, se ne andava in giro per tutta la Palestina, mica solo nei quartieri alti. Voglio dire, se Achille Lauro vuole essere l’artista che rompe le regole, le etichette etc, non può fare dei cartelloni ordinari – quello sì, che sarebbe provocazione – da affiggere nelle varie periferie di Milano?
Si è dato spesso addosso a Fedez, a Salmo, a tutti i rapper che, dopo essersi fatti da soli arrivando dal nulla, possono ora comprarsi attici a City Life o fare pubblicità e programmi tv, e di Achille Lauro, che voleva il cartellone su Corso Como (mica Quartoggiaro, o a Cinisello Balsamo, per dire), si parla solo di «censura»? Mi aspetto che i suoi fedeli dicano «Me ne frego» al posto di «Amen», ma ormai ho perso le speranze. Mi sono già preoccupata un paio di giorni fa, quando ho saputo che Mina avrebbe espresso (tramite le parole del figlio Massimiliano Pani in un’intervista sul Giornale) la volontà di una collaborazione con Achille Lauro. Lui, il dio, bontà sua, avrebbe risposto: «Ho venduto l’anima ad un diavolo ed il mio cuore con dentro chi amavo solo per questo. Al suo servizio regina».
A parte che se lui è un dio, dare della regina a Mina è troppo poco, ma anche qui, che noia: salta più all’occhio la mancanza della virgola al posto giusto (io l’avrei messa, prima di «regina») che l’ennesimo riferimento all’artista maledetto che vende l’anima al diavolo e bla, bla, bla. Per poi riapparire – su Instagram, montandoci sopra un nuovo caso – in veste di vittima della censura, crocifisso come il Figlio di Dio Padre, con la stampa che continua a dare spazio a un gioco trito e ritrito.
Insomma, anche questa volta, o forse ancora più delle precedenti, c’è puzza di marketing, di quelli studiati da un genio, o da un dio della pubblicità, per rimanere in tema. Di fronte a questa nuova ondata di massificazione di pensiero lauriano, personalmente mi arrendo, o, meglio, «Me ne frego», però ai fan del dio Lauro suggerisco di vegliare sul loro idolo, poiché il delirio di onnipotenza non è tanto bello. Giusto in questi giorni si discute della salute psichica di Kanye West. Certo Achille Lauro sta benissimo, ma una ripassata al significato vero dei termini «provocazione», «originalità» e «censura», secondo me, non guasterebbe né a lui, né ai suoi followers. Amen.