Montecarlo, domenica di fine maggio. Niente ressa alle Piscine, niente grida al Tornantino, niente battito di cuore mancato alla Sainte Dévote. Niente di niente. Quest’anno non si correrà il Gran Premio di Monaco.
Ma Charles Leclerc in pista scenderà lo stesso. Claude Lelouch, regista premio Oscar e Palma d'oro a Cannes, l’ha scelto per sostituirlo nel remake dello scandaloso “C’etait un rendez-vous”.
Prima pilota Ferrari, poi modello per Armani e oggi anche attore (e martedì sera ospite a EPCC, E poi c'è Cattelan, su Sky Uno). Chissenefrega se nella sua brevissima carriera ha vinto solo due gare, per tutti Leclerc è l’icona di una Formula 1 che sta cambiando aspetto.
Ho cercato sul dizionario la definizione di predestinato, Charles. Significa che il destino era già dalla tua parte
I piloti mi sono sempre sembrati personaggi lontani. Sarà che li guardavo alla televisione già da piccolissima, accovacciata sul divano azzurro della casa in cui sono cresciuta. Sarà che quando andavo a Monza tutta vestita di rosso dovevo strizzare forte gli occhi per vederli anche solo un po’. Ma Leclerc non mi è mai sembrato lontano.
Mi ricordo quando correva in Formula 2. Era il 2017 ma sembra passata una vita intera. Una stagione incredibile, il suo biglietto da visita per diventare quello che è oggi.
Guardarlo correre era una vera e propria sofferenza. Dalla Prema bianca e rossa di quel ragazzino arrabbiato con il mondo traspariva tutto. Tutto quello che aveva perso, tutto quello che stava perdendo, tutto quello che non aveva ancora.
Questo è uno dei motivi per cui la definizione che gli hanno affidato, Il Predestinato, mi ha sempre infastidita.
Lui che nel 2017 a Monza ebbe un fine settimana difficile, uno dei pochissimi di quell’anno, e lui che per i ferraristi non era ancora nessuno. Io ero lì, mi ricordo quel weekend, con i tifosi che acclamavano la vittoria di Ghiotto e nessuno che immaginava, anche solo lontanamente, quello che sullo stesso podio sarebbe successo solo due anni dopo.
Uno che vince a Baku solo quattro giorni dopo la morte del padre per me, contro il vento, è abituato a lottare. Altro che vento in poppa
Ho cercato sul dizionario la definizione di predestinato, Charles. Significa che il destino era dalla tua parte, con il vento in poppa. Significa che la tua storia era già scritta prima che tu decidessi di farlo.
Quando sei giovane tutti pensano che sia stato il destino a portarti dove sei. Forse è proprio la tua età, che è uguale alla mia, il motivo per cui non mi sei mai sembrato un personaggio lontano. O forse è perché basta guardare indietro di un paio di anni per conoscere tutto di te. Per sapere che predestinato non lo sei mai stato. Il motivo per cui proprio non mi piace di questa definizione di Vanziniana memoria, che ormai anche tu usi così tanto, è che sembra annullare la rabbia di quel ragazzino arrabbiato di Formula 2.
Una versione un po’ melodrammatica di quello che è nato per essere un complimento, me ne rendo conto, ma quando penso agli anni che cambiarono la carriera di Leclerc mi vengono in mente tante cose ma “il vento in poppa” non è proprio tra queste.
Perché uno che vince a Baku solo quattro giorni dopo la morte del padre, per me contro il vento è abituato a lottare. Altro che vento in poppa.
"Una settimana prima mio padre se ne andasse, gli ho detto di aver firmato con la Ferrari. Ovviamente non lo avevo fatto. Mia madre mi disse: ‘questo non va bene, Charles, non dovresti mentirgli.’ Ma io sapevo che lui se ne sarebbe andato entro la settimana successiva. Per dargli un'ultima soddisfazione, gli dissi di aver firmato. Ricordo le lacrime nei suoi occhi. Da quel giorno mi sono portato dietro un rimorso. Poi, quando ho firmato veramente, è stata la prima cosa a cui ho pensato: non ho mentito quel giorno”.
Non è stato il destino a portarlo dov’è, è stato il lavoro. E il dolore. Quello nella vita serve sempre. Più è forte, più è giovane, più - se gli sopravvivi - ti infiamma
Predestinato un corno ragazzi miei. Non è stato il destino a portarlo dov’è, è stato il lavoro. E il dolore. Quello nella vita serve sempre. Più è forte, più è giovane, più - se gli sopravvivi - ti infiamma.
La nostra generazione, Charles, non ha vissuto la morte straziante di Villeneuve e neanche il peso assurdo di un weekend nero come quello in cui morì Senna. “Tutti ricordano dove si trovavano nel momento in cui Senna morì” si dice sempre. Ma che ne sappiamo noi, noi che nel ’94 ancora non eravamo nati.
Un peso, però, nel cuore lo ricordiamo, ed è quello di Suzuka 2014. Era ottobre e pioveva tantissimo. L’incidente di Jules Bianchi quel giorno si portò via la spensieratezza della nostra generazione di appassionati, noi che non avevamo mai perso un pilota in pista. Ma a te, Charles, portò via un amico.
Bianchi era il tuo padrino, il tuo mentore, era il ragazzo con cui avevi iniziato a correre sui kart. Lui che sarebbe diventato un pilota Ferrari ma che non ci arrivò mai. Tu un passo dietro di lui, ad imparare le sue lezioni. Lui con il numero 17, tu con il 16.
Quando gli chiedono di Bianchi, a Leclerc ancora si bagnano gli occhi. Con quella malinconia un po’ principesca che lo ha sempre caratterizzato. Con la delicatezza di un ragazzo sensibile e la rabbia di un pilota vero. Già, perché non bisogna lasciarsi ingannare dal sorriso furbetto e i modi gentili. Il monegasco in pista si infiamma, e lì riesco a ritrovare il ragazzo incazzato che correva in Formula 2. Quello che abbiamo visto a Monza, quando ha buttato fuori pista il sei volte campione del mondo Lewis Hamilton senza pensarci due volte. Quello che ha lentamente deteriorato la sicurezza del compagno di squadra, un quattro volte iridato come Sebastian Vettel. Quello che ha preso la celebrità di Max Verstappen, giovane rampollo della Formula 1, e l’ha messa in un angolo. Quello che deve ancora imparare a stare al suo posto, a stare zitto, a muoversi con sicurezza nell’incasinato mondo della comunicazione. Quello che non mi è mai sembrato, neanche una volta, un personaggio lontano. Il Charles Leclerc che può essere quello che vuole ma che, sicuramente, non è un predestinato.