Sono passati 29 anni dall’attentato che uccise Paolo Borsellino e di cinque agenti della scorta ma, come detto dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato nel corso della sua audizione davanti alla commissione antimafia siciliana, “la strage di via D’Amelio è ancora con noi”. E proprio dagli esiti della nuova inchiesta della commissione sul depistaggio delle indagini (la cui relazione conclusiva è stata approvata nei giorni scorsi e non ancora pubblicata, ma già visionata da MOW) partiamo per renderci conto di tutte le anomalie e delle questioni che ancora oggi rimangono irrisolte riguardo a quella sanguinosa vicenda. E delle quali chissà se si arriverà mai a capo.
“Mai una sola investigazione giudiziaria e processuale – si leggeva nelle conclusioni della prima parte della relazione della commissione presieduta da Claudio Fava, risalenti al 2018 – ha raccolto tante anomalie, irritualità e forzature, sul piano procedurale e sostanziale […]. Mai alla realizzazione di un depistaggio concorsero tante volontà, tante azioni, tante omissioni come in questo caso. Mai gli indizi seminati, in corso di depistaggio, furono così numerosi e così ignorati al tempo stesso come nell’indagine su via D’Amelio. […] Si può ragionevolmente concludere che la regia del depistaggio comincia ben prima che l’autobomba esploda in via D’Amelio. Questo induce a pensare che «menti raffinatissime», volendo mutuare un’espressione di Giovanni Falcone, si affiancarono a Cosa Nostra sia nell’organizzazione della strage, sia contribuendo al successivo depistaggio. È certo il ruolo che il Sisde ebbe nell’immediata manomissione del luogo dell’esplosione e nell’altrettanto immediata incursione nelle indagini della Procura di Caltanissetta, procurando le prime note investigative che contribuiranno a orientare le ricerche della verità in una direzione sbagliata. È certa la consapevolezza (ma anche l’inerzia) che si ebbe in Procura a Caltanissetta sull’irritualità di quella collaborazione fra inquirenti e servizi segreti, assolutamente vietata dalla legge. Certa è anche l’irritualità dei modi («predatori», ci ha detto efficacemente un pm audito in commissione) attraverso cui il cosiddetto gruppo “Falcone-Borsellino” condizionò le indagini, omise atti e informazioni, fabbricò e gestì la presunta collaborazione di Vincenzo Scarantino e degli altri cosiddetti pentiti. Certo, infine, ripetiamo, il contributo di reticenza che offrirono a garanzia del depistaggio – consapevolmente o inconsapevolmente – non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali. Ben oltre i nomi noti dei tre poliziotti, imputati nel processo in corso a Caltanissetta, e dei due domini dell’indagine (oggi scomparsi), e cioè il procuratore capo Tinebra e il capo del gruppo d’indagine “Falcone-Borsellino”, Arnaldo La Barbera”.
Per la commissione se qualcuno di quegli indizi “fosse stato raccolto tempestivamente anche da chi non aveva funzioni direttive, se i molti che ebbero consapevolezza delle forzature avessero scelto di non tacere, se non vi fosse stata – più volte e su più fatti – una pervicace reticenza individuale e collettiva, non saremmo stati costretti ad aspettare la collaborazione di Gaspare Spatuzza per orientare le indagini nella direzione opportuna. […] Se le domande che questa Commissione ha voluto raccogliere, per poi rivolgere a chi era in condizione o aveva il dovere di rispondere, fossero state formulate anche in passato, non avremmo dovuto attendere 26 anni per avere contezza e certezza di questo depistaggio”.
Le 12 domande senza risposta della famiglia Borsellino
Architrave dell’indagine sono state le domande che la famiglia Borsellino ha rivolto per anni in ogni ambito e livello istituzionale, ricevendo risposte a volte parziali, a volte contraddittorie, spesso reticenti:
1) Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino?
2) Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i pubblici ministeri di Caltanissetta non convocarono mai il dottor Borsellino per ascoltarlo sulla morte del dottor Falcone?
3) Perché i pubblici ministeri di Caltanissetta dell’epoca non ritennero di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco?
4) Che ruolo ebbe l’allora Sisde sul falso pentimento di Vincenzo Scarantino?
5) Che ruolo ebbe l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera?
6) Perché i pm di Caltanissetta non depositarono nel “Borsellino 1” i verbali del confronto fra il presunto pentito Scarantino e i collaboratori di giustizia Cancemi, Di Matteo e La Barbera che lo smentivano palesemente?
7) Perché i pm di Caltanissetta – e, successivamente, i giudici – non tennero in considerazione le due ritrattazioni di Scarantino?
8) Perché Ilda Boccassini e altri pubblici ministeri autorizzarono i componenti del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino” a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia?
9) Perché non fu mai redatto un verbale del sopralluogo della polizia assieme a Scarantino nel garage dove sosteneva di aver trasportato la 126 poi trasformata in autobomba?
10) Chi è l’ispiratore dei verbali, con a margine delle annotazioni a penna, consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino prima dei suoi interrogatori?
11) Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione ma ai poliziotti del gruppo “Falcone-Borsellino” diretto da La Barbera?
12) Perché i pubblici ministeri Palma e Petralia annunciarono un tentativo della mafia di inquinare le indagini subito prima dell’intervista televisiva in cui Scarantino ritrattava le proprie accuse?
Anche la commissione però non era arrivata a un esito soddisfacente: “Resta un vuoto di verità – era la conclusione della relazione – su chi ebbe la regia complessiva della strage e del suo successivo depistaggio. E quale sia stato, nel comportamento di molti, il labilissimo confine fra colpa e dolo, svogliatezza e intenzione, distrazione e complicità”. Per questo la commissione antimafia della Regione Sicilia ha deciso di avviare una nuova inchiesta.
Le conclusioni della seconda inchiesta
“La parola depistaggio – si legge nelle conclusioni della seconda parte – è entrata a pieno titolo nel dizionario delle stragi di questo Paese, quale perfetto contrario dei termini verità e giustizia. Il depistaggio sull’eccidio di via D’Amelio presenta, però, una caratteristica che lo rende diverso rispetto a tutti gli altri: è stato, sebbene solamente in parte, svelato. Ed è proprio ciò che lo rende, come ha evidenziato durante la sua audizione il procuratore generale Scarpinato, più che mai attuale. Non deve stupire che oscuri meccanismi, oggi, si pongano strenuamente in difesa della ricostruzione falsa e consolatoria proposta da Scarantino e dai suoi suggeritori: allargare lo sguardo su cosa accadde in quei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, sulle inquietudini del giudice Borsellino, su ciò che aveva intuito o saputo e che si preparava a dire; raccontare quella strage non come un ultimo disperato colpo di coda di Cosa nostra ma come il punto d’arrivo di un disegno più ambizioso e devastante per i destini del Paese: insomma, parlare di via D’Amelio sapendo di non poter parlare solo di mafia è cosa che fa ancora paura. A ventinove anni dalla morte di Paolo Borsellino, si preferisce che la corda pazza di quella strage non venga sfiorata. E i depistaggi, ieri come adesso, sono lo strumento più efficace”.
La domanda che i componenti della commissione si sono posti nell’avviare la seconda inchiesta è stata “Come si costruisce una menzogna alla quale tutti (o comunque troppi) finiscono per credere?” E qui ci si è misurati con il significato plurale della parola depistaggio: “Non una trama sinistra ordita da uno sparuto manipolo di soggetti, ma un pensiero organizzato, spregiudicato, capace di una sua continuità e impunità nel tempo, coperto da inconfessabili complicità.
È grave che l’intelligence italiana abbia accettato (e continui ad accettare) di convivere con il sospetto di un terribile coinvolgimento dei suoi apparati in una delle pagine più nere della nostra storia. Un rischio collaterale sopportabile, a quanto pare. Non una voce, in questi anni, una preoccupazione, un disvelamento sulla catena di comando che portò il Sisde ad aver un ruolo da protagonista nelle prime battute di quel depistaggio; non una parola o un dubbio sui signori in giacca e cravatta che quella domenica pomeriggio si trovavano tra le fiamme di via D’Amelio alla ricerca dell’agenda rossa. Ma fu depistaggio anche tutto ciò che precedette quella maledetta domenica. Come il progressivo e calcolato isolamento, professionale e umano, cui fu sottoposto Paolo Borsellino. Aspetti, quelli legati ai rapporti con Giammanco e alla carenza del dispositivo di sicurezza intorno al magistrato, che avrebbero preteso puntuali approfondimenti da parte dell’autorità giudiziaria […] ma che l’“invenzione” di Scarantino oscurò del tutto”.
Anche stavolta la conclusione è amara: “Non si può […] tacere il senso di rassegnazione con cui in troppi hanno accolto e accettato i silenzi di questi 29 anni, i ripetuti furti di verità, le forzature istituzionali, le ansie di carriera, i silenzi di chi avrebbe potuto dire. Come se davvero su questa storia e sulle responsabilità (non solo penali, lo ripetiamo!) che l’hanno accompagnata, occorresse rassegnarsi al silenzio. Questa seconda relazione della commissione antimafia dell’Ars (come la precedente) vuole essere anche questo: una sollecitazione civile a non abituarsi all’idea che la verità ci sia negata per sempre”.
E la verità potrebbe implicare una motivazione legata non solo al rapporto tra mafia e politica, con l’aggiunta di un nuovo elemento, la finanza.
La pista finanziaria
“Si può ragionevolmente ipotizzare – si leggeva nel rapporto Oceano della Dia (Direzione investigativa antimafia) inviato a quattro Procure nel marzo 1994 – che, attraverso il mercato finanziario, la criminalità organizzata abbia potuto raggiungere anche il sistema industriale”. Per la commissione “ora questa ipotesi comincia a trovare alcuni supporti in indagini giudiziarie che potrebbero portare alla scoperta di cointeressenze economiche là dove non era neanche immaginabile fino a pochissimo tempo addietro. Non è affatto da escludere che una simile interpretazione dei fatti fosse condivisa da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”.
Invece “la Procura di Caltanissetta dell’epoca, facendo sua, e imponendola all’opinione pubblica, la versione di Vincenzo Scarantino, ha fornito una ricostruzione dei fatti che spiega la strage di via D’Amelio unicamente con la volontà bestiale di vendetta di Cosa Nostra. E che Cosa Nostra si sentiva talmente forte da poter affidare parte dell’organizzazione di quell’eccidio ad un soggetto marginale, praticamente analfabeta, con forti turbe psicologiche. Ci sono voluti quasi vent’anni perché questa interpretazione dei fatti fosse smontata. Oggi il «versante economico» in cui avvennero le stragi è una delle ipotesi prese in considerazione. Che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avessero al centro dei loro interessi investigativi la potenza economica e finanziaria di Cosa Nostra è da lungo tempo assodato. Falcone era intervenuto con forza del processo (fatale per la mafia americana) Pizza Connection (prestando all’Fbi sia Buscetta che Contorno che si rivelarono testimoni fondamentali); aveva pubblicamente denunciato la “finanziarizzazione” di Cosa Nostra (l’entrata in borsa nel gruppo Gardini); seguiva con attenzione le vicende del grande flusso di denaro che Cosa Nostra aveva investito a Milano (era stato il tema del suo incontro con la procuratrice svizzera Carla Del Ponte, già nel 1988) ed era, ovviamente, molto interessato al rapporto dei Ros su mafia e appalti, che approfondiremo in questo capitolo e che apriva uno scenario: la conquista da parte di Cosa Nostra di una posizione quasi monopolistica nel settore del cemento e del calcestruzzo, con il coinvolgimento delle maggiori imprese italiane […]. Eppure, la procura di Caltanissetta, nelle indagini sulle possibili cause della strage di via D’Amelio non è mai stata interessata a questi aspetti. Ha preferito perseguire, con tenacia e in spregio alla logica, l’assurda pista Scarantino”.
Il giornalista Enrico Deaglio, una delle 22 persone sentite dalla commissione in questa nuova tornata, ha commentato su Domani la “riesumazione” del rapporto della Dia: “Il testo fa venire i brividi ancora adesso, perché la strategia di Cosa Nostra viene inserita (con una quantità notevole di fonti di prova) all'interno di una strategia «economica e finanziaria» tesa a cambiare il volto del nostro Paese. Si parla di nuovi partiti da costruire, delle trame massoniche e di quelle leghiste, dei collegamenti stretti tra mafia e servizi segreti e soprattutto della «finanziarizzazione» dell'industria dell'eroina di cui la mafia siciliana era all'epoca monopolista. Lo scenario è tanto realistico quanto pauroso: i soldi dell'eroina avevano conquistato l'economia italiana. Falcone e Borsellino furono uccisi perché l'avevano capito. Perché questa pista investigativa non fu seguita? Perché, per almeno dieci anni, tutte le istituzioni (dalla procura nazionale antimafia, alle Dda, al Csm, alla politica) bocciarono questa interpretazione? Lo dirà – chissà, tra un secolo? – la famosa Storia”.
Cosa rimane?
La commissione sottolinea che “non esiste ancora una verità storica (né una verità giudiziaria) in grado di ricostruire compiutamente autori, moventi, mandanti e contesto storico in cui avvennero quegli spaventosi attentati, senza precedenti nel continente europeo dalla fine della guerra. […] Il depistaggio sul delitto Borsellino (paradossalmente) appare essere oggi una delle poche certezze in mezzo a tanti misteri. Sia sul depistaggio che sulle stragi sono tutt’ora in corso processi a Caltanissetta, Palermo, Firenze e Reggio Calabria. Il tema impegna poi, da decenni, anche la Procura nazionale antimafia. Ma i dubbi restano, tutti: Cosa Nostra agì da sola o (come appare assai più probabile) fu il braccio militare di altre “entità”? C’era davvero il progetto per un nuovo assetto politico per il nostro Paese su cui si sarebbero trovati in sintonia le mafie, gruppi di estrema destra e associazioni segrete come la P2? Quale fu il ruolo dei servizi segreti? Falcone e Borsellino furono uccisi (come intendono far credere le impalcature dei depistaggi) per semplice vendetta mafiosa, perché si occupavano dei denari di Cosa Nostra o perché intralciarono quel progetto eversivo? Quei delitti furono la reazione per quello che avevano scoperto o per quello che i due magistrati avrebbero potuto scoprire e fare? Perché la magistratura ha lasciato cadere importanti spunti investigativi, ha dato credito a personaggi privi di alcuna credibilità, ha fondato inchieste durate anni sulla base di falsi visibili ad occhio nudo? E il depistaggio su via D’Amelio è parte dello stesso progetto criminale che ha portato alla morte di Paolo Borsellino e di cinque agenti della sua scorta?”
La commissione ha cercato di inviduare “il perimetro delle responsabilità istituzionali che hanno permesso, non solo in Sicilia, l’ignominia di quel depistaggio: chi non capì, chi non cercò, chi non disse, chi distolse lo sguardo, chi lavorò consapevolmente per la menzogna, chi cercò colpevolmente solo la propria carriera”. Anche da questa seconda indagine è emerso “un reticolo di responsabilità forse penalmente non rilevanti ma tutte, a diverso titolo, determinanti nell’assecondare, proteggere, accompagnare quel furto di verità su via D’Amelio. E nel coprire, di fatto, mandanti e movente che una lettura facile e consolatoria (sostenuta per diciassette anni dalle verità «rivelate» da Scarantino) avrebbe voluto limitare all’interno di Cosa Nostra. Solo una vendetta: come in un b-movie”.