L’ultimo episodio, il più grave, è stato quello della morte di Romeo, 17enne accoltellato in centro a Formia e spentosi poco dopo in ospedale, vano ogni tentativo di salvargli la vita. Appena il giorno dopo è uno dei suoi professori a parlare, denunciando un dominio di quelle che chiama baby gang in alcune zone della città. Solo un’etichetta, è vero, ma perfettamente inseribile in uno scenario di cronaca nazionale oggi dominato dalla violenza giovanile: risse, abuso di alcol e droghe, giochi social che possono risultare fatali.
Una questione di “accumulo” da lockdown? In parte sì secondo Paolo Crepet, noto psichiatra e scrittore, che si tiene comunque distante dal definire la violenza giovanile come un portato della pandemia. Crepet invita a non cadere nel tranello mediatico da “eccesso informativo”, ma al contempo a non sottovalutare quanto quotidianamente influisca tra le fasce giovani e giovanissime, private di grossa parte delle loro possibilità associative e non affatto favorite da una politica che “poteva fare molto di più e molto meglio”; in primis rendendosi conto del “gran danno”, seppure indiretto, causato dalla didattica a distanza.
Dad che lo psichiatra non esita a definire “un fallimento”, anche all’interno di un più ampio pezzo scritto per l’Huffington Post, dove inquadra i dieci punti per rilanciare la scuola, tra i quali ne spicca uno: “Portare a 18 anni l’obbligatorietà dell’istruzione”.
Professore, secondo lei l’esplosione dei casi di cronaca legati a giovani e giovanissimi può essere causata dalla situazione pandemica che stiamo vivendo?
In parte, ma non completamente. Ricordiamoci che anche l’anno precedente alla pandemia si sono registrati casi di estrema violenza tra le fasce più giovani. Dire che la violenza giovanile sia nata con la pandemia è, se non una bugia, un eccesso informativo. La pandemia non ha aiutato, ma non siamo di fronte a una novità assoluta. Certo, va detto che rispetto a 40 anni fa gli smartphone e i social hanno aiutato a favorire gli incontri e agevolare ogni tipo di intenzione, perché tu con un semplice WhatsApp puoi invitare 50 persone, e il fatto che una generazione come quella del 2000 sia stata chiusa fisicamente in casa non ha portato benefici.
Siamo rimasti molto colpiti da quegli episodi scaturiti da vere e proprie risse organizzate sui social: in sostanza, gruppi anche di 40 o 50 persone si danno appuntamento con l’esplicito intento di scontrarsi fisicamente. Sono vicende che portano a pensare a una generica questione di ‘accumulo’?
L’accumulo c’è e c’è stato. Parliamo di ragazzi davvero molto giovani; quello morto a Formia aveva 17 anni, ma ne sono coinvolti spesso di molto più giovani. È anche una questione di libertà, perché oggi a 14-15 anni in sostanza fai quello che ti pare, e questa è un’altra caratteristica del panorama italiano, che da questo punto di vista non si presenta di certo felice. Una cosa che di sicuro la pandemia ha accelerato è l’incapacità da parte dei genitori di imporre regole e mettere paletti.
Dal punto di vista politico, si poteva fare meglio, di più, agire in modo diverso?
Sì, si poteva fare molto meglio facendo una cosa molto semplice: dopo il primo mese e mezzo di chiusura, nel periodo successivo si poteva e doveva tentare a tutti i costi di salvare le scuole, così come abbiamo salvato le fabbriche.
La didattica a distanza non funziona?
Lei mi spieghi qual è la differenza tra la fabbrica e una scuola di fronte a un virus. Gli operai sono lì, avranno una mensa e degli autobus per andare e tornare. È solo una questione culturale, perché se fermiamo le fabbriche fermiamo tutto. Questo è vero, ma se fermiamo le scuole facciamo un gran danno, che non è solo quello didattico, ovvero il fatto che per questi poveracci ci sarà un buco di un anno…
Lei come se li immagina i giovani e giovanissimi di oggi nel futuro?
Uno dei danni indiretti della Dad è quello di aver impedito una certa socializzazione, il momento di ritrovo e confronto che se negato può rivelarsi esplosivo, ed è a mio parere un problema non considerato a sufficienza, ma credo sia ora che si cominci a farlo…
Un quindicenne di oggi saprà vivere di meno, avrà meno strumenti per affrontare la socialità e la quotidianità in ogni campo?
Sarà necessario un periodo graduale e non breve di rieducazione, riabilitazione all’educazione sociale.
Il nuovo ministro cosa dovrà fare?
Intanto la novità è che ci sono due ministri e non uno. Quindi io credo sarebbe logico che insieme buttassero giù un piano per riformare la scuola. Ma per farlo bisogna mettere mano alla meritocrazia, alla chiusura dei ‘diplomifici’, a delle cose che richiedono sforzi non banali dal punto di vista politico.
Se dovesse dare una priorità assoluta?
Portare il minimo scolastico a 18 anni, che rappresenta tra l’altro un impegno a costo zero. Per contro, costa enormemente alla società la dispersione scolastica.