“L’amara scoperta che Dio non esiste ha ucciso la parola destino. Ma negare il destino è arroganza…”. Comincia così una delle pagine più belle della letteratura italiana. Ci penso spesso a questa frase. E ci pensavo anche ieri, perché l’ha scritta Oriana Fallaci e era il suo compleanno. Ma anche perché ho letto la notizia di un ragazzo della mia città che è caduto in un crepaccio del Gran Paradiso mentre faceva la cosa che più gli piaceva: scalare montagne. La passione, la solita benedetta e maledetta passione. Che sia in odore di benzina, come per molti di noi, o di natura, come per quel ragazzo, o di qualsiasi altra essenza. La passione ti guida e al tempo stesso ti fa cadere. T’aiuta a vivere e pure a morire. E’ caduto e per ore, tantissime ore, non si è saputo se i soccorritori sarebbero riusciti a raggiungerlo e se, una volta raggiunto, l’avrebbero trovato in vita. Dopo due giorni d'angoscia sono riusciti a recuperarlo solo ieri sera. Cadavere. E ho pensato a quella frase dell’immensa Oriana, nella pagina più bella del suo libro più intenso. Perché la testa è andata a quei genitori e sono un padre anche io, perché vivo anche io una passione pericolosa e perché da padre o da appassionato, da qualunque lato cerco di approcciare le cose che succedono, la conclusione a cui arrivo è sempre la frase che Oriana Fallaci ha invece usato per cominciare quel capitolo di Un Uomo: “L’amara scoperta che Dio non esiste ha ucciso la parola destino, ma negare il destino è arroganza”. E’ destino. Era destino. E’ l’unica spiegazione che vale sempre. Ma è una spiegazione che non spiega. O, almeno, è una spiegazione che non allevia. Non produce sollievo. Alcuno. Mai.
E allora, forse per scacciare l’angoscia o, più egoisticamente, per superare la coscienza sporca dell’essere un appassionato (consapevole di poter arrecare dolore se dovesse succedere qualcosa) o anche solo per allontanare l’idea di sofferenza di padre (che non può certo impedire passioni ai suoi figli), ho ripensato ad una storia. Una storia d’amore, di morte e di un viaggio. Una storia in cui la forza della passione è diventata il modo per metabolizzare la crudeltà (o la crudità?) del destino. L’avevo letta, questa storia, in qualche giornale locale. Ed il protagonista ero andato a cercarlo, magari per scrivere qualcosa in occasione della scorsa Festa del Papà. Poi non l’ho più fatto. Evidentemente non era destino. Evidentemente era destino che aspettassi MOW.
Mirko e la sua Ducati oltre il destino
E’ la storia di Massimo Camuso, un padre. “A me le moto non sono mai piaciute. Ma adoravo la luce negli occhi di mio figlio, fin da quando aveva quattro anni, ogni volta che ne vedeva una. Ho assecondato una grande passione e ho amato le moto di riflesso, attraverso quel riflesso nei suoi occhi” – Comincia così quel padre, Massimo Camuso, prima ancora di raccontare che suo figlio Mirko è morto il 4 agosto scorso, a 19 anni.
Era una domenica e Mirko, in sella alla Ducati Hypermotard sognata con tutto se stesso, stava andando ad un appuntamento con altri amici motociclisti, dalle parti del Macrolotto di Prato. Poi, tutti insieme, sarebbero andati a cena al Mc Donald’s lì vicino. Mancavano poche decine di metri e, invece, ha perso il controllo della moto, cadendo rovinosamente a terra e colpendo il cordolo di un marciapiede. La tragedia davanti agli occhi degli amici. Poi il dolore, il funerale accompagnato dal rombo di moto e motorini. E, dopo ancora, il buio della sofferenza e quella frase che come una goccia costante e violentissima risuonava sempre nella testa di un papà straziato: “mancavano solo pochi metri”.
Il resto della storia è un racconto di metabolizzazione del destino, un racconto di forza e di reazione che ha avuto per protagonisti Massimo Camuso e la sua famiglia (la mamma e il fratellino di Mirko) e gli amici di un ragazzo che se ne è andato mentre godeva della sua passione.
“Dovevo percorrere quei metri, con quella moto. C’ho messo un po’ a capirlo, ma poi è stato tutto chiaro” – spiega Massimo. “Dopo l’incidente e dopo il dissequestro del mezzo, qualcosa mi ha spinto ad andare a recuperare la Ducati di mio figlio. Ho caricato il rottame su un furgone e l’ho portato in garage. Poi mi sono armato di una spranga in ferro per distruggere quello che restava. Ma davanti a quello che restava del sogno di Mirko ho capito che la rabbia non si scarica, ma si può solo trasformarla in energia. E qualcosa dentro di me ha detto che non avrei dovuto distruggere proprio niente. Anzi, avrei riportato quella Ducati alle sue condizioni originali. Ho condiviso questo proposito con mia moglie. E’ stata d’accordo ed abbiamo iniziato l’avventura”.
Un’avventura fatta di blog, tutorial, forum di ducatisti, solidarietà e tanta, tantissima, ostinazione.
“Io di moto non sapevo niente. Anzi, sapevo solo che Mirko le ha sempre adorate ed ho assecondato questa sua passione sin da quando era piccolissimo. La minimoto, poi il motorino, poi questa Ducati che mi aveva chiesto e richiesto con una luce negli occhi a cui era impossibile opporsi. Due ruote, un manubrio, una carena e un motore limitato a 48 cavalli. Ecco cosa era per me la moto di Mirko e cosa erano per me le moto in genere. Così, quando abbiamo deciso di ripristinare la Hyper ci siamo rivolti a dei professionisti. Ma i costi erano proibitivi e, al di là dei costi, sentivo che avrei dovuto provarci con le mie mani. Ho studiato tanto, mi sono iscritto a tutti i forum di ducatisti presenti in rete, ho chiesto consiglio e mi sono confrontato. Ho trovato tanta disponibilità tra i motociclisti, è vero che sono una grande famiglia sempre pronta ad aiutarsi. Poi, anche con l’aiuto degli amici di Mirko, ci siamo lanciati alla ricerca dei pezzi. Ho smontato il rottame componente per componente, man mano che cominciavo ad apprendere nozioni di meccanica e di ciclistica. Linguaggi assolutamente sconosciuti per me”.
La determinazione, però, ha fatto tutto il resto, come racconta ancora Massimo: “Più il tempo passava e più sentivo che stavamo facendo la cosa giusta, quella che avrebbe onorato al meglio la memoria di nostro figlio. Quando ho avuto tutti i pezzi, reperiti nuovi o usati anche grazie agli slanci di solidarietà di chi era venuto a sapere del mio progetto, li ho allineati in garage. E ho ricominciato a studiare per capire come montarli. Ci ho passato notti, ci ho messo mesi”.
Fino a poche settimane fa, quando la Ducati Hyper di Mirko è tornata al giorno in cui quel ragazzo poco più che diciottenne l’aveva riportata per la prima volta in garage.
“Gli amici di Mirko hanno apposto sulla carena la sigla che mio figlio amava: MKC. Fatti tutti i collaudi e sbrigata tutta la burocrazia necessaria – ha concluso Massimo Camuso – abbiamo deciso di compiere con quella moto quei metri che in quel maledetto giorno Mirko non era riuscito a fare. E’ stato commovente, doloroso, ma bellissimo. Se l’avessi distrutta, se mi fossi accanito in maniera distruttiva contro quel rottame, non avrei reso onore ad una passione immensa. Una passione che io, che non ho mai amato la moto, non potevo e non posso capire; ma che era palese ed evidente, in tutta la sua potenza, ogni volta che Mirko vedeva una motocicletta. Ogni volta che ne parlava, ogni volta che lo abbiamo visto allontanarsi in sella alle sue due ruote”.
Ma i sogni, è cosa nota, generano sogni. Massimo e la sua famiglia, insieme agli amici di Mirko, hanno deciso di non fermarsi e, anzi, di costruire attraverso quella moto qualcosa di più grande.
“La moto di Mirko deve diventare un simbolo – ha spiegato Massimo – Per ora è ancora come i pezzi stesi in garage, devo mettere insieme le idee e decidere come assemblarle al meglio, ma vorrei, vorremmo, utilizzare questa Ducati per promuovere attività in favore della sicurezza stradale, magari coinvolgendo altri genitori e gli stessi ragazzi. Vorrei far capire a tanti padri che vietare la moto è vietare una passione immensa. Una passione che solo chi ce l’ha può capire. E' inutile, forse dannoso, opporsi. Sarebbe più opportuno, invece, documentarsi, magari per capire come assecondare questa passione nei ragazzi senza esporli a rischi troppo grandi o evitabili. Prevenzione, corsi di guida, campagne di sensibilizzazione. Ci stiamo lavorando e metteremo in fila le tappe, perché quei metri conclusi in sella alla sua moto devono essere l’inizio di un viaggio: il viaggio di Mirko”.