Ho una gran pena. E qui ho scritto al femminile veramente. Sia chiaro! Fatta la doverosa premessa, io, maschia trentanovenne, devo prendere coscienza che se andiamo avanti così dovrò rivedere tutta la mia grammatica, almeno nella genere: maschila e femminila. Ecco perché questa è la mia prima articola politicamente corretta.
Ho una gran pena perché la mattina apro le giornale e leggo notizie imbarazzanti. Ma no imbarazzanti perché riferiscono di violenza, sangue e marginalità, ma perché riportano di tendenze che fanno vomitare anche una maschia come me. Una che ha fatto cronaca nera (minchia, mi sa che non si può dire: cronaca diversamentebianca) per tante annate e che di schifezze ne ha viste e raccontate parecchie. Fino a quelle insopportabili di queste giornate. Quelle in cui leggo che ritirano le cioccolatine perché evocano nomenclature razziste, decapitano statue perché non hanno le palle di prendersela con le persone, ritirano pellicole perché le sceneggiature nascondono velleità suprematiste, stravolgono la Lingua Italiana perché maschilista.
Ho una gran pena pure perché temo che la mia barista di fiducia possa allentarmi una cazzotta sull’arcata dentala quando avvicinandomi alla bancona le (o gli? Visto che è maschia) chiederò di prepararmi “enormi persone di colore”. Perché secondo la nuova scienza filosofica non è solo questione di maschila e femminila. Ma pure di colorazioni e tendenze. Con l’unica fine, praticamente vuota a perdere, di non ledere la sensibilità di chi potrebbe offendersi.
Ho una gran pena perché non c’è coscienza che chi si offende per certe minchiate, probabilmente non solo non ha una sensibilità, ma non ha nemmeno una cervella. Che, non casualmente, fa rima con budella.
Ho una gran pena, quindi, perché sta vincendo chi ha la cacca nella testa. Riportando su un piano di superficialità e pochezza tematiche a cui, invece, servirebbero umane profondità piuttosto che umanitaristiche soluzioni.
Ho una gran pena perché la radice della politicamente corretta sta nella paura della verità che, non passando per la filtra della libertà individuale, diventa negazione. Negazione della verità delle cose, ma pure negazione della fatica di studiare, ponderare, ragionare. Farsi (che non è scoparsela) un’idea.
Ho una gran pena perché penso che tutta questa faccenda sia cominciata proprio una o due generazioni prima della nostra: quella dei diversamente giovani non ancora abbastanza diversamente adulti. La buonisma, che è la madre zoccola (si dice? O è meglio diversamentecasta?) della politicamente corretta, ce l’hanno messa sulla testa per giustificare la nostra futura, ma eventuale, vita fallimentare.
Ho una gran pena perché è proprio lì che sta la semenza della bugia come eredità, guardandosi bene dalla cinisma (o cinicità?) della verità. Non fa una piega e allora tiriamo fuori questa grande padreterna che governa la nostra monda: la correttezza di superficie. La bugia per eredità è proprio l’incapacità di ammettere la verità, senza la filtra di una giustificazione.
Ho una gran pena perché a ragionare così finiremo col dire che Bukowski era scorretta? No. Bukowski era semplicemente vera. Santoddia! Vera come un ubriaca (senza apostrofa sarà oltraggio?), vera come una profonda, vera come una scontenta, vera come una ficaiola (e qui merito la querela, lo so), vera come era semplicemente verità quella che mostrava di sé stessa. Vera come è diversa una diversa e come tutte siamo diverse. Vivaiddia!
Ho una gran pena perché mi viene in mente una frase sentita in una congrega di donnaiole (e qui si fa complicata con la grammatica e la significazione) impenitenti qualche annata fa. La saggia della reunion affermò che “è tradire quando ti scoprono”. Ecco, funzioniamo così. Non è che è tradire quando si consuma la tradimenta, è tradire quando emerge. Anche dentro la goliardia di una cricca amicale.
Ho una gran pena perché s’è preferito accantonare la sostanza della giustizia in favore della negazione della verità quando è vera. Confondiamo le aberrazioni con la pubblicità delle aberrazioni, consentendo le prime e vietando le seconde. Un’aberrazione è aberrazione sempre, poi diventa oscenità quando emerge. Invece ci siamo auto convinte, tutte quante maschie e femmine, che l’aberrazione è aberrante solo quando diventa detta o pubblica. Come la tradimenta, insomma.
Ho una gran pena perchè pur di non accettare che non si scoreggia in mezzo alla gente, abbiamo imparato la tecnica della silenziata. Ecco, la politicamente corretta è esattamente una scoreggia silenziata: aria fetida condita di meschinità e vigliaccheria elevate al rango di capacità e tecnica delle sonorità.
E questa è la prima e ultima articola politicamente corretta che scrivo.