Era Baku la grande assente del mondiale 2020, ora lo sappiamo. Una stagione zoppicante costruita sulle incertezze della pandemia in cui il circus si è dovuto adattare a rinunce necessarie: via Montecarlo, via Interlagos, via il ritorno in Olanda con Zandvoort, via anche Baku.
Baku che quando è entrata in calendario ha fatto storcere il naso ai più, come se un altro circuito cittadino fosse indesiderato e non necessario. Baku che invece da anni ci regala follia pura, benzina del mondo del motorsport, e Baku che, diciamocelo, è il circuito cittadino più bello di tutto il calendario. Sì, anche più bello di Monaco. Dove c’è il lusso, la storia, dove in qualifica si vede il manico del pilota ma anche dove la domenica, davanti alla televisione, si finisce addormentati, drogati dalla noia di un trenino fatto di monoposto troppo larghe per tentare sorpassi.
In Azerbaigian invece c’è tutto, e c’è fin dal venerdì delle prove libere quando i piloti, agitati e impauriti da una pista strana, costruita intorno a un castello, finiscono contro le barriere e sbattono i nasi contro le curve cieche. Il settore del castello e l’omicida curva 15 che, ogni anno, raccoglie vittime troppo spavalde. Escono scodando e si ritrovano a muro, segnando e rovinando una barriera a cui tutti sembrano voler dare un bacio troppo violento.
Ogni volta che compare una bandiera gialla a Baku si perde un battito. Un lungo può costare la gara, un errore può rimettere in discussione il Gran Premio di tutti. Lo abbiamo visto in questi anni, e lo abbiamo rivisto questo weekend, con gli occhi sgranati davanti a una gara che non assomiglia a nessun’altra.
Le strade strette, in cui l’errore è dietro l’angolo, in un attimo si trasformano in autostrade di velocità dove superare è facile e dove la scia gioca un ruolo fondamentale. Sono tratti di un mondo che in pochi anni hanno riempito le pagine di questo sport.
Profuma di Formula 1, il Gran Premio di Baku. Di emozioni forti, di lacrime e sudore. È Lewis Hamilton che inchioda in regime di safety car, con Sebastian Vettel che lo tampona sulla sua Ferrari. È il tedesco che affianca il campione del mondo e lo sperona, come sugli autoscontri.
È Daniel Ricciardo che nel 2017 vince la prima edizione del Gran Premio d'Azerbaigian, sfruttando la follia generale di una gara rimasta simbolica per l'australiano. Ma anche lo stesso Ricciardo che l'anno seguente tampona il compagno di squadra Max Verstappen nel tentativo di superarlo, costringendo entrambi al ritiro.
È Charles Leclerc che nel 2017 vince in onore del padre, scomparso da pochissimi giorni, portando sul casco un “Je t'aime papa” e sul podio una buona dose di lacrime trattenute. Ma è anche il monegasco che va a muro in qualifica, nel 2019, e che quest’anno compie la sua redenzione centrando la pole position.
Baku è Max Verstappen, leone inferocito, che prende a calci la posteriore sinistra della sua monoposto distrutta, colpevole di averlo tradito a pochi giri dalla bandiera a scacchi. Ed è questo sport che rimescola le carte in tavola, con Hamilton che sbaglia nella ripartenza e butta via il vantaggio sull’olandese.
È Lawrence Stroll che esce dal ruolo di team principal ed entra in quello di padre, andando ad assicurarsi che il figlio Lance stia bene dopo il brutto incidente. È Sebastian Vettel che ritrova se stesso, e fa pace con il quattro volte campione del mondo del suo passato, abbracciato da tutti, avversari compresi.
Baku si merita una lettera d’amore perché anno dopo anno ci ricorda che questo sport sa essere imperfetto, imprevedibile, incomprensibile. E perché ogni volta che i piloti lasciano le strade dell'Azerbaigian tutti noi amiamo la Formula 1 un po’ di più rispetto a quando ci sono arrivati.