La saggezza popolare sostiene che quando le cose importanti non ci sono, allora sì che ne senti la mancanza. Ditemi allora in quanti avremmo agognato così tanto il ritorno a scuola, non potendone più delle vacanze, della stasi, dei tempi morti, di provare a imparare e insegnare qualcosa, completamente rincoglioniti davanti allo schermo del computer?
Si può dire che a scuola ho passato tutta la mia vita, dalla materna all’università come studente e subito dopo, senza soluzione di continuità, dall’altra parte della barricata. Sulla mia carta d’identità c’è scritto docente, non critico d’arte o giornalista, perché quello della scuola è un mestiere “serio”, con un autentico valore civile, e quindi se devo indicarne uno scelgo quello anche se meno prestigioso.
Lo scorso aprile ho compiuto 59 anni, dunque rientrerei nella fascia a rischio dei quasi anziani, degli insegnanti “fragili”, e invece me ne frego della salute perché non si può vivere in un mondo in cui la conservazione rappresenti l’unico valore. Me ne frego e cercherò in tutti i modi di far scuola in maniera tradizionale e se le istituzioni non me lo consentiranno, perché le aule non sono a norma, perché non ci sono i termoscanner, perché i colleghi e i bidelli sindacalizzati (uno dei profondi mali della nostra povera patria) faranno di tutti per rimanere a casa, convocherò gli studenti in un parco, in un museo, nel mio studio privato. Disubbidire è l’ultimo baluardo alla civiltà che ci resta, non se ne può fare a meno, e a tutto avrei pensato da ragazzo tranne che di infrangere le regole (per quanto liberticide) per rivendicare il mio diritto ad andare a scuola, a insegnare.
A noi degli anni 60 facevano leggere Pinocchio e il libro Cuore, i primi romanzi popolari dell’Italia unita. Se volevi diventare un bambino, e non essere più un burattino di legno, dovevi andare a scuola e studiare. E lì trovavi di tutto, il ricco, il povero, il buono, il cattivo, lo sfigato. Diventavi amico del tuo compagno di banco oppure lo detestavi ma ogni mattina ti presentavi sempre lì, con i compiti fatti o da fare, temevi lo sguardo dell’insegnante o forse lo affrontavi con serenità, perché la poesia di Foscolo, la tabellina del 7 le sapevi davvero. C’era un unico banco monoposto e se ti toccava vuol dire che eri stato messo in punizione.
Vi sta scrivendo uno che con la scuola è davvero fissato, convinto che la scuola sia il primo baluardo di civiltà. Solo che in questo paese è trattata di merda, gli investimenti sono pochi, nessun governo (di nessun colore e orientamento) l’ha posta tra i settori strategici. Tranne accorgersi, ora, che sulla scuola la maggioranza rischia il tonfo, che studenti e famiglie sono davvero stanchi di non sapere cosa accadrà da oggi in poi, e l’opposizione fa leva come in campagna elettorale pur senza idee precise in merito. Avendo quattro figli, tra i 24 anni e i 18 mesi, per ciascuno si sta presentando un problema diverso: la prima discuterà la laurea magistrale in remoto ed è un’aberrazione, la seconda appena iscritta all’università comincerà il semestre tra remoto (molto) e presenza (un giorno la settimana), il terzo è in seconda liceo, debiti compresi, non ha idea di come partiranno le lezioni, il quarto è ai suoi primi giorni di materna e le maestre sono costrette a usare la mascherina che è davvero una scemenza perché ai bimbi così piccoli devi regalare sorrisi e serenità.
Qualche settimana fa ho pubblicato un tweet in cui sostenevo che la chiusura di discoteche e locali sarebbe stata propedeutica alla difficile riapertura delle scuole, e in effetti sta andando così. Tra tutto ciò che è accaduto da marzo a oggi, lo stop all’istruzione è ciò che mi preoccupa di più. Prendersela con il ministro Azzolina è la strada più semplice per evitare di dire che i governi hanno messo in piedi un precedente pericoloso e inquietante. Dalla primavera 2020 il “tuo” Stato può importi di stare a casa, non uscire, non istruirti, non dialogare, isolarti. È un seme, il seme di un nuovo totalitarismo. Ecco perché a scuola bisogna andarci comunque, a ogni costo, per salvarci la vita, per salvare ciò che resta della democrazia.