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Siamo tutti vittime di catcalling,
anche gli uomini. Ve lo dimostriamo

  • di Maria Eleonora Mollard Maria Eleonora Mollard

8 aprile 2021

Siamo tutti vittime di catcalling, anche gli uomini. Ve lo dimostriamo
Ovvero, di quella volta che a diciotto anni, con la mia ex migliore amica iniziammo a fare apprezzamenti ironici su un ragazzo che passeggiava da solo, uno di quei tipi che in un altro momento della giornata avreste trovato in gruppo di zarri a fare il grosso con le pischelle: intimorito, se ne andò con la coda tra le gambe, e capimmo che anche per i bulletti di periferia valeva il divide et impera

di Maria Eleonora Mollard Maria Eleonora Mollard

In quel teatro di guerra che ci ostiniamo a chiamare esistenza, nelle ultime settimane il tema del catcalling è quello che è riuscito a penetrare, indistintamente tutte le nostre filter bubble. Nella quotidianità elevata a parodia da ogni millennial che risponde, a modo suo, a ogni tema con vacua e irritante ironia, tra tutti i gironi infernali quello meno preoccupante, seppur da estirpare, rimane il girone delle molestie verbali. Potrebbe essere collocato nel primo cerchio dantesco, il più affollato, quello che, ahimè, in troppe si sono ritrovate a sperimentare presto o tardi nella vita.

Di solito è un rito di passaggio che inizia nella pubescenza ed è inversamente proporzionale all’età, non sto facendo dell’ageism, ma è quello che molte donne, soprattutto giovani, esperiscono. A sua volta credo che ogni cerchio possa suddividersi in ulteriori gironi, nel peggiore dei casi per incasinare il tutto con un montaggio esistenziale à la Nolan; nel migliore dei casi per dare una parvenza culturale à la Salò di Pier Paolo Pasolini.

Non tutte le donne hanno avuto il privilegio cis-etero-bianco (?) di essere vittime di catcalling. Alcune di noi si sono ritrovate sotto una pioggia di merda che univa body shaming e catcalling in una versione OGM e ipertrofica delle molestie verbali, una triste dimostrazione di come le parole possano essere fin troppo entranti, e non solo a livello epidermico. Parlo di quando tra i nineties e i noughties, chi scrive è del 1986, passeggiare per strada, sbrigare due commissioni e/o vagare senza meta, era l’equivalente democratico (perché accessibile a tutti) dei concorsi di bellezza americani per bambini: sbagliato, invalidante psicologicamente e non necessario. Non c’erano le palette coi voti o prove da sostenere, e molte di noi non sono finite male come Jonbenét Ramsey, ma una vasca per le vie del centro era pericoloso tanto quanto giocare a campana su un campo minato privo di sminatori.

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Aurora Ramazzotti. Sono le sue frasi dei giorni scorsi ad aver riportato al centro del dibattito pubblico il problema del catcalling

Non c’è bisogno di sedersi su una panchina e urlare complimenti a qualsiasi uomo tra i 18 e i 30 anni per capire, ancora una volta, quanto siano diversi uomini e donne, indipendentemente da quanto, ultimamente, i movimenti femministi vogliano appianare le differenze in nome di una parità che non tiene conto della semplice biologia umana.
Parlare di catcalling è un argomento vischioso che mette in disaccordo tutti. Questi sono i compromessi da accettare quando si scrive, ma anche quando si vive lasciando quel piano B di impiccarsi alla maniglia della porta per un altro giorno.

È come definire il tempo, è un tipo di esperienza personale, intima, che ha diverse gradazioni e le stesse non possono e non devono essere percepite allo stesso modo da tutti. Conosco donne, per quanto il numero di donne con cui ho parlato non rappresentino un campione sufficiente dal punto di vista statistico, che troverebbero fin troppo entrante un complimento e, al contempo, altrettante donne che vedono la reiterazione di frasi di ‘apprezzamento’, ovviamente non richieste, un semplice retaggio culturale a cui fare un pat pat sulla testa dell’esemplare maschile in questione.

È difficile trovare un uomo che non eriga un vero e proprio Muro di Berlino a fronte di apprezzamenti non ricercati. Con tutte le limitazioni dei vari Dpcm, vi basterà provare a fare la stessa cosa nella vostra sandbox digitale sui social, e noterete il divario nelle risposte tra uomo e donna. Di come l’uomo faccia cadere una coltre di silenzio e la donna tenda a essere più accomodante e paziente, forse per evitare la risposta piccata del passivo aggressivo o l’insulto del matto di turno con uscite tipo: ‘te la tiri’, ‘chi ti credi di essere’, ‘sei un cesso’, e tutto un corollario di brutture per i vostri occhi degne delle pagine de Il Redpillatore.

Chissà, magari le donne hanno una memoria genetica maggiormente sviluppata e aggirano in modo più agile i ‘ritardati’ emotivi che incontrano tra le maglie della banda larga o per strada. Ovviamente questo non deve bastarci.
Uno dei tanti problemi di oggi, sempre che la variante giapponese del Covid non ci eviti l’ennesimo triste e imbarazzante Capodanno, è che le ‘lotte’ progressiste ragionano esattamente come gli algoritmi della rete: provano a ridurre al minimo il margine di errore nelle persone, cercando di rendere l’esperienza della vita umana il più agevole possibile attraverso vademecum comportamentali, che siano interiorizzate o meno queste regole non è importante: alcune cose non si dicono e/o fanno e basta. Pena: l’esclusione da svariate filter bubble.
Il femminismo digitale continua le guerre puniche contro le vocali per raggiungere, almeno la parità  lessicale, ignorando che sono le differenze, ed ebbene sì, e gli errori i luoghi deputati alla creazione del dialogo, alla risoluzione dei problemi e, forse, a un miglioramento della condizione sociale e umana.

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Il catcalling ante litteram catturato da Mario De Biasi, nel 1954, nel celebre scatto "Gli italiani si voltano"

Perciò se fischiassi per strada un uomo riscontrerei, come mi è già capitato: perplessità, indifferenza, risate e dai disperati veri, gli stessi che scrivono sul forum dei brutti, un approccio verbale con pieghe disturbanti.
L’uomo e, in particolar modo, il branco, ragiona per immagini perché è più semplice, tutto qui. Questo mi ricorda di quando, a diciotto anni, con la mia ex migliore amica iniziammo a fare apprezzamenti ironici su un ragazzo che passeggiava da solo, uno di quei tipi che in un altro momento della giornata avreste trovato in gruppo di zarri a fare il grosso con le pischelle: il ragazzo, intimorito, se ne andò con la coda tra le gambe, e capimmo che anche per i bulletti di periferia valeva il divide et impera. E qui ci sarebbero da fare ulteriori distinzioni tra i gironi dei cerchi dei gironi iniziali: è vero che il catcalling è una pratica sgradevole e in quella, ormai, perfetta adesione a dei valori che ci snaturano anno dopo anno per avvicinarci a degli automi privi di emozioni, è fuori tempo massimo; è vero che le vittime sono perlopiù ragazze e pure giovani; ma è anche vero che sarebbe puerile negare che siamo tutti vittime, e non è per sminuire il cat-call, si tratta di togliere la patina di ipocrisia e dire che non è mai stato importante cosa si dice, ma chi lo dice. In fondo tutta questa bagarre non è iniziata da un personaggio mediatico? Non è il contenuto, ma chi denuncia cosa in base allo status sociale (e social), al sesso biologico, all’identità di genere, all’allineamento sessuale e perché no, in base alla simpatia. Tutti si rifanno sugli altri, e per quanto sia squallida  la levata di scudi per difendere un approccio, a volere essere buoni, imbarazzante, e siano intellettualmente scorretti i bugiardini dell’intellighenzia che vogliono riadattare il sermone di Martin Niemöller ‘Prima vennero…’, immaginando in modo paranoide la privazione di un diritto fondamentale per i maschi; è vero che è altrettanto stupido, inutile e qualificabile come problema da primo mondo, l’attuale tendenza a negare lo spettro di grigi di cui è formata l’esperienza umana e la percezione personale in nome di un pigro manicheismo che ragiona per  immagini e codici, in modo semplice e banale come quegli stessi tipi squallidi che gridano davanti al McDonald’s sulla Tiburtina ‘Anvedi che pezzo de sorca’.

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