L’anniversario, questa volta, nasconde qualcosa in più. Dieci, venti, trenta, quaranta: ogni primavera degli anni la cui cifra finale è un due proliferano le iniziative che portano il suo nome. Mostre, libri, presentazioni, ricordi: Gilles Villeneuve se n’è andato l’8 maggio del 1982 e, questa volta, la giostra della memoria segna i quarant’anni; sono più di quelli che il pilota canadese ha vissuto su questa terra.
Ciò significa che una parte significativa di coloro che l’hanno conosciuto di persona ai tempi del Circus non c’è più, e chi c’è un ragazzino proprio più non è. Stessa cosa per chi l’ha tifato, è la legge del tempo: dei giovani qualcuno si salva, ma dei vecchi… A chi scrive l’hanno raccontata per la prima volta in dialetto, in quello che era il dialetto di Enzo Ferrari, uno che è arrivato ai novanta pur avendo corso su bare lanciate a velocità formidabili, perché il futurismo ce l’hai dentro, e pur avendone costruite altre non meno pericolose (non per imperizia ma perché l’automobilismo, all’epoca, quello era: la tragedia possibile dietro ogni curva) che gli hanno tolto ragazzi che amava come figli.
Gilles, appunto. Villeneuve non ha mai vinto un titolo mondiale, è salito sul primo gradino del podio della Formula 1 appena sei volte, ma è mito e leggenda da sempre anche per coloro che sono nati dopo la sua morte, perché a loro è stato raccontato. Non perché l’abbiano visto, sebbene oggi, soprattutto, non mancano le possibilità di rivedere tutto e di leggerne di ogni: c’è YouTube, ci sono decine e decine di libri, decine di migliaia di articoli. Ma Gilles vive in quello che hanno tramandato i nonni, i padri: Gilles Villeneuve è tradizione orale, e il resto serve solo a confermare che è esistito veramente, che l’emozione ha una controparte fattuale e il messaggio può così essere replicato di generazione in generazione
Ancora per qualche giorno (sino al 19 giugno), a Maranello sono esposte sculture, quadri, ceramiche, bronzi e altre opere che lo ritraggono, il 18 giugno verrà realizzato in paese un murales che lo ritrae e sino a fine luglio a Nonantola, sempre nel Modenese, il suo antico sponsor Giacobazzi, nel proprio museo-cantina – qui è terra di Lambrusco: vino rosso e mosso, non contemplativo, e c’è un senso villeneuviano anche in questo – terrà aperta una mostra intitolata “Gilles 40 sulle ali del vento”. Teche che sono tabernacoli, monoposto con il numero 12 e le scocche della 27 come altari, i pezzi della Ferrari distrutta a Zolder come reliquie, i video quali salmi. C’è qualcosa di sacro, perché sacra è la passione per chi ama l’automobilismo. E no, non ci sono solo visitatori con i capelli bianchi. Ci sono anche i figli, anche i nipoti. Insieme, ed è la tradizione orale di cui sopra.
E del sacro, ma meravigliosamente profano, c’è anche nel lenzuolo esposto da qualche tifoso a Imola due settimane prima, nel giorno del suo ultimo gran premio, quello degli 11 cartelli “slow” e della rottura con Pironi. Pennello e vernice, costo praticamente zero, quasi una profezia: “Dio perdona… Gilles no”. Fra le reliquie, un dettaglio. Del racconto, parte integrante.