L’imprevisto dietro una curva, l’ostacolo inaspettato. È così che muore un pilota e è così che è morto Bruce McLaren, esattamente mezzo secolo fa. Ora, cinquanta anni dopo e per effetto di una dinamica del tutto identica, a rischiare grosso è la McLaren stessa. L’azienda viaggiava a pieni giri fino a qualche mese fa: la Formula 1 e la produzione di hypercar di grande successo, poi la curva e l’ostacolo, che hanno preso le sembianze di una pandemia che sta mettendo in ginocchio tanti. Compresa, appunto, la McLaren, costretta proprio in questi giorni ad annunciare il licenziamento di 1200 dipendenti. Troppo ingenti le perdite causate dall’arresto della Formula 1 e dall’inevitabile calo di ordinazioni di hypercar dovuti al Covid19.
“Ci rammarichiamo profondamente per l’impatto che questa ristrutturazione avrà sui nostri dipendenti – ha spiegato Paul Walsh, Presidente Esecutivo del Gruppo McLaren - ma non abbiamo altra scelta se non quella di ridurre la nostra forza lavoro. È un momento molto difficile per la nostra azienda, ma abbiamo in programma di riemergere con un chiaro percorso di ritorno alla crescita”.
Una sofferenza economica e umana che lascia passare quasi in secondo piano un anniversario a cifra tonda: i 50 anni dalla morte di Bruce McLaren. Era il 2 giugno del 1970, infatti, quando l’uomo che ha segnato con un cognome la storia del motorismo sportivo perse la vita a Goodwood, mentre provava una delle sue auto che avrebbe partecipato al Campionato CanAm. Una giornata normale, durante un normalissimo test. Tanto che di quello che accadde non c’è nemmeno una immagine, nemmeno una testimonianza diretta. Si sa solo che Bruce McLaren perse il controllo dell’auto in uscita di curva, andando a schiantarsi contro una torretta per i commissari di gara che era in disuso. Morì sul colpo.
Se non la sua morte, la storia di Bruce McLaren oggi come non mai potrebbe rappresentare il simbolo a cui aggrapparsi per la casa automobilistica che porta il suo cognome e che ha proseguito con gloria, rendendolo tradizione, l’approccio alle corse di quel pilota neozelandese. Una storia di ostacoli e rinascite. Di difficoltà e ingegno per superarlo. Di soliti problemi affrontati con soluzioni insolite.
Fin da quando Bruce era piccolo e gli fu diagnosticata una malattia che a detta dei medici gli avrebbe impedito per sempre di camminare in maniera regolare e senza l’ausilio delle stampelle. Era bravo nel rugby, il ragazzo, e quello era (ed è) lo sport nazionale a cui lui stesso si sentiva vocato. Poi quella malattia, l’inevitabile scelta di mettere via la palla ovale e prendere, invece, un paio di stampelle. Ma anche una promessa: la promessa che quelle stampelle lo avrebbero solo aiutato, ma non certo per tutta la vita. Le utilizzò per tre anni, fino ad imparare a camminare senza di loro, mettendo a punto una sorta di tecnica che gli permetteva anche di non rendere particolarmente evidente la sua zoppia. E nel frattempo la scoperta di un altro grande amore, le auto, dentro l’officina di suo babbo. Quello stesso babbo, Les, che era stato pilota di moto e che gli mise in mano a soli 14 anni una Austin7. Vietandogli, però, di utilizzarla per le corse. Ovviamente ci corse, a soli 15 anni. E vinse già alla prima gara.
Quel ragazzino ostinato decise che quello sarebbe stato un inizio. Anche di un modo nuovo di correre, mettendo a punto da solo la sua macchina, migliorandola sempre. Insomma, nascondendo con l’innovazione quanto quella Austin7 fosse vecchia e inadeguata. In una parola sola: zoppa.
Arrivò a tempestare di lettere Jack Brabham per chiedergli delucidazioni su una Formula2 che McLaren aveva acquistato e che era appartenuta proprio alla leggenda inglese. E Brabham non riuscì a restare freddo davanti alla passione di quel ragazzo, davanti all’insistenza di uno che, poi, diventò il suo pupillo e la sua stessa fortuna. Uno che, nel frattempo, si era iscritto anche ad Ingegneria (perchè talento e intuito non bastano).
Da qui il trasferimento in Inghilterra, il famoso quarto posto al Nurburing al volante di una Formula2 tra le Formula1. Le vittorie, tante, al volante di auto diverse, sui circuiti di tutto il mondo e non solo nella Formula1. Gli incidenti, le sconfitte, i dolori grandi per la perdita di compagni di avventura. Bruce McLaren dimostrava di avere un grande talento nel correre, nell’inventare e collaudare le sue creature. Ma un ancora maggiore talento ce l’aveva nel rialzarsi e rilanciare. Sempre.
Fu così anche quando arrivò a fondare il suo marchio. Anche quando scelse di correre con altre auto per finanziare la crescita di quella scuderia, McLaren, che oggi suona di storia del motorismo e di vittorie anche grazie a chi, sposando i suoi principi e emulando il suo talento, ha saputo andare oltre a quel 2 giugno. Quando poteva finire tutto. E invece ricominciò tutto.
Una storia e un messaggio che oggi più che mai possono diventare simbolo a cui affidarsi e ancora a cui aggrapparsi. Perché era il 2 giugno quel giorno in cui Bruce McLaren - parafrasando Richard Bach e quel capolavoro senza tempo che è Il gabbiano Jonathan Livingston - è rinato nel livello di quelli che volano meglio e più veloci. Correva, c’erano una curva e un ostacolo non considerato. Oggi è il 2 giugno, per McLaren (la McLaren) ci sono una curva e un ostacolo non considerato. Ma c’è anche, ora, l’insegnamento di un Sullivan di nome Bruce.
“…Scegliamo il nostro mondo successivo in base a ciò che apprendiamo in questo. Se non impari nulla, il mondo di poi sarà identico a quello di prima, e avrai anche là le stesse limitazioni che hai qui, gli stessi handicap...” (Sullivan al gabbiano J. - R.B. – Il gabbiano Jonathan Livingston)