Ci sono giorni più indimenticabili di altri e quei giorni dell’estate 1982 sono entrati dentro di me, dentro di noi e ci accompagneranno per sempre, fino lassù, che chi ha potuto viverli da ragazzo non finirà mai di raccontarli ancora e ancora.
Il 5 luglio al Mundial di Spagna si gioca Brasile – Italia. La partita è nel pomeriggio, nello stesso orario in cui il docente di Storia del cinema ha fissato l’appello per gli esami. Nonostante la sorprendente vittoria contro l’Argentina, gli azzurri di Bearzot hanno poche chance di farcela; per un momento, solo per un momento, penso sia giusto rimanere in università e sostenere l’esame che avevo ben preparato. Di appelli però ce ne saranno presto altri, partite così chissà. Saluto, cerco un telefono a gettoni, avviso il mio amico Sandro, la scuola può attendere, l’Italia no.
L’11 luglio si gioca la finale al Bernabeu. Italia – Germania, ma a questo punto gli azzurri non li ferma più nessuno e loro lo sanno. Le ore dell’attesa sono sempre le più difficili, però allo stadio comunale di Torino suonano i Rolling Stones e io avevo preso il biglietto mesi prima. Il concerto più atteso dell’anno non può competere con l’ultimo atto del mondiale e allora gli organizzatori spostano lo show nel pomeriggio, nonostante il caldo torrido. Verso la fine Mick Jagger sale sul palco con la maglia numero 21 e pronostica: “Stasera vincerete 3-1”.
È andata proprio così. L’Italia di Paolo Rossi supera l’Argentina di Maradona, il Brasile di Zico, la Polonia di Boniek, la Germania di Rummenigge. Il centravanti magro, con le ginocchia fragili (mi ha raccontato Luciano De Maria, massaggiatore della Juventus e della Nazionale, che quando gli mostrarono le sue radiografie era convinto fossero di un settantenne), fermo da due anni per una brutta storia di scommesse dove lui non c’entrava per niente ma fu tra i pochi a pagare (troppe volte i tribunali hanno voluto rifare la storia del calcio), giornalisti e opinione pubblica lo davano per finito e spingevano Roberto Pruzzo al suo posto.
E pensare che Paolo Rossi non ancora Pablito giocò nel 1978 in Argentina uno straordinario mondiale da outsider - lui e Cabrini furono la rivelazione dell’Italia del Vecio Bearzot - un mondiale cominciato benissimo e finito malino, al quarto posto, anche in molti sostengono che nel gioco quella squadra fu la migliore. Il ’78 era stato un anno terribile in Italia, il terrorismo al suo drammatico apice con l’assassinio di Aldo Moro: potrà sembrare un azzardo ma quel mondiale, i gol di Rossi e Bettega, un concetto di calcio moderno e arioso ha simboleggiato la voglia del Paese di uscire dall’incubo peggiore del dopoguerra. È come se la Nazionale avesse anticipato un mondo nuovo, quattro anni dopo l’Italia è un'altra Nazione, dove si vive meglio, si è più ricchi, più laici e non si spara più nelle strade.
Eroe dei miei vent’anni e di tutti quelli che come me hanno avuto la fortuna di esserne testimoni, Paolo Rossi è stato uno dei pochi calciatori a identificarsi pienamente con la Nazionale e non con il club, nonostante nella mia Juventus abbia vinto tutto - 2 scudetti, 1 Coppa Campioni nella tragica notte dell’Heysel, 1 Coppa Coppe, 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa. Ha giocato anche nel Vicenza sbarazzino di GB Fabbri, nel Perugia di Castagner e dopo l’avventura a Torino, il rapido declino, un anno al Milan, uno al Verona, quindi il ritiro a soli 31 anni. In azzurro invece ha dato tutto, in quei due mondiali che hanno trasformato la storia in leggenda, e proprio la convocazione nel 1986 dove non giocò neppure un minuto lo convinse a dire basta.
Si dice che il signor Rossi sia l’equivalente dell’uomo normale, l’impiegato di concetto creato dalla penna di Bruno Bozzetto, il cognome a lungo più diffuso in Italia. Ci deve essere stato uno sbaglio se il signor Paolo Rossi da Prato ti fa vincere il mondiale mentre un altro signor Rossi, Vasco da Zocca, in quell’estate 1982 canta Vado al massimo, vado a gonfie vele e il terzo signor Rossi, Valentino da Urbino e già salito su una moto elettrica ad appena tre anni.
Quando se ne va un eroe normale il dolore è ancora più forte perché chi è normale, con i suoi alti e bassi, le zone oscure, le scelte giuste e gli errori, è certamente uno di noi. Oggi l’Italia piange una persona perbene, un uomo buono, un campione, un appassionato di calcio ma non abbastanza per affermare che la sua vita fosse solo questo. Non gli intitoleranno uno stadio perché nella sua storia non è stato dato spazio alla tragedia né al grottesco, forse un centro sportivo nella sua Prato, magari un premio. Certamente il silenzio.
Anche se quella frase pronunciata tre volte da Nando Martellini, con gioia e garbo, dall’11 luglio 1982 ancora mi rimbomba in testa. Tante volte ho pensato che quegli eroi fossero invincibili e immortali, nonostante il pegno pagato alla sorte malvagia quando se ne andò Gaetano Scirea, nonostante ci avesse lasciato Enzo Bearzot per raggiungere il Presidente Sandro Pertini a fumare la pipa nel paradiso dei socialisti. Pensavo che sarebbero durati in eterno: Zoff, Gentile, Cabrini, Bergomi, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Oriali, Graziani, Antognoni, Altobelli, Marini, Causio e gli altri che giocarono meno.
Rossi… Rossi… ha segnato Rossi… Addio Pablito, eroe dei miei vent’anni.
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