Campione del mondo. Coppa Campioni, Coppa delle coppe, Coppa Uefa, Coppa Intercontinentale, 6 scudetti, 3 Coppe Italia. A memoria è questo il palmares di Antonio Cabrini, uno dei giocatori più vincenti nella storia del calcio italiano: il trofeo più importante - il Mundial - l’ha conquistato nel 1982 con la Nazionale azzurra, tutti gli altri con la Juventus.
Se si parla di vittorie, insomma, è palese che Cabrini ne sappia. E sa anche cosa significhi vincere nella Torino bianconera: impegno, lavoro, sacrificio, abnegazione, serietà. Certo, quando manca il talento può non bastare, ma non è certo il caso dell’ex Bell’Antonio, che ha aggiornato il ruolo di terzino sinistro in chiave contemporanea. Dopo di lui, solo Paolo Maldini.
Ieri Cabrini ha parlato, e le sue dichiarazioni sono abbastanza rare, lui che fu protagonista e marcatore nella sfida Italia – Argentina al Sarrià il 29 giugno 1982, dove accadde ciò che spesso accade nel calcio: vinse la squadra, vinsero undici leoni al cospetto del giovine campione cui un terzinaccio baffuto nato a Tripoli, Gentile solo di nome, non fece vedere palla per 90 minuti.
Antonio Cabrini ha detto che se Diego Armando Maradona avesse giocato nella Juventus e se fosse vissuto a Torino probabilmente sarebbe ancora vivo.
Con i se e i ma non si fa la storia, certo è che l’Avvocato si innamorò del ragazzino 18enne poiché il suo estro e la sua classe gli ricordava quella di un’altra sua passione, il Cabezon Omar Sivori. Chiese a Giampiero Boniperti di portarlo a Torino, ma il presidente si oppose: aveva compiuto le sue indagini, prese le informazioni necessarie, arrivando alla conclusione che il carattere del giovane argentino mal si sarebbe adattato alla rigida disciplina sabauda. Con la riapertura delle frontiere arrivò in bianconero il soldato irlandese Liam Brady e dopo due anni Le Roi Michel Platini, quanto basta per continuare a vincere. Quella Juve era una squadra fortissima, l’ossatura della Nazionale più Platini e Boniek.
Ha ragione chi sostiene che vincere a Napoli è difficilissimo, e infatti dopo Maradona sono arrivati pochi trofei minori. Ma non ha torto chi sostiene anche esista un rapporto malato tra una delle città più belle del Mediterraneo e i suoi eroi: il troppo amore ti soffoca, ti consuma lasciandoti credere che tutto sia possibile, che esista un divino al di sopra delle regole, talmente oltre da non essere chiamato a rispettare la legge degli uomini. Il cielo è azzurro, come la bella maglia della squadra, arrivi a toccarlo e poi cadi giù. E più nessuno ad aspettarti.
Giochiamo ora con le domande e le risposte. Se Maradona avesse giocato nella Juve avrebbe vinto di più? Probabilmente si. Sarebbe stato costretto a comportamenti più consoni a un atleta? Certamente si. Li avrebbe rispettati? Suo malgrado sì, Torino è noiosa, perbenista, falsa ma non tollera certe stravaganze. E i tifosi juventini si sarebbero identificati totalmente in lui? Assolutamente no, sarebbe stato uno dei tanti campioni bianconeri, forse il più forte, ma uno degli undici, nessuna eccezione.
Niente da fare, dalle nostre parti si rispettano le regole, a denti stretti, brontolando, ma se c’è una legge ci si adatta e a chi non sta bene è pregato accomodarsi altrove. Pensavo, mentre osservavo le immagini dei tifosi partenopei radunati e assembrati al San Paolo per dare l’addio al loro Dieguito (e questa volta De Luca non ha detto nulla, niente bazooka, niente minacce) al silenzio assoluto che accompagnò, nel settembre 1989, il saluto alla terra di un campione del mondo. Nessun coro, nessun fuoco, nessun applauso. Solo preghiera. Era un uomo buono, disciplinato, serio, un grande atleta: si chiamava Gaetano Scirea, e non lo dimenticheremo mai.