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Antropologia di Maradona

  • di Ray Banhoff Ray Banhoff

26 novembre 2020

Antropologia di Maradona
Il ricordo di chi con il calcio non ha mai avuto niente a che fare, ma con Maradona sì. Tanto da averlo già pianto nel gennaio scorso, nel riguardare un documentario sulla sua vita leggendaria

di Ray Banhoff Ray Banhoff

Negli anni ‘80, mio padre aveva un amico medico napoletano, casalese per essere precisi. Si era trasferito in Toscana e passavamo il Natale assieme. Prima di Capodanno scendeva “giù” e tornava con un milione e mezzo di lire in botti. Li sparavamo sul terrazzo a mezzanotte, mentre lui svuotava il caricatore della sua Smith & Wesson verso il cielo. Il rumore era fortissimo, sordo, da spostamento d’aria. Ricordo che nel momento stesso in cui succedeva mi chiedevo dove sarebbero finite quelle palle di piombo. Perché un proiettile può volare a folle velocità per molti chilometri, ma prima o poi da qualche parte dovrà cadere. E se avesse preso in testa un altro bambino? E se me ne fosse toccato uno in testa anche a me, sparato da chissà quale condominio?

Il dottore era un esponente della società bene, eppure rischiava con questi episodi al limite dell’illegalità. Nessun altro amico di mio padre avrebbe osato tanto, forse nemmeno mio padre, ma sulla terrazza del dottore tutto andava in delirio tanto che ricordo le mie mani impugnare il calcio dell’arma, le mani di un adulto (il dottore?) che a loro volta tenevano le mie, il grilletto freddo e così duro che non riuscivo a premere e poi un dito che schiacciava al posto mio, pressando e strizzandomi la falange sul grilletto. Poi il colpo, un tonfo che si irradiava in tutto il corpo come un’onda di calore. Credevo mi si fosse spostato lo sterno dal rinculo, che non sarei più tornato a posto.

Forse per un attimo qualcuno si accorse di cosa succedeva e si affrettarono a spostarmi altrove e a ripulire la scena. E poi via! Due risate, un bicchiere al cielo, i regali da scartare. Mancava poco a mezzanotte, era il 1989, il mondo cambiava, gli anni Ottanta ci davano a tutti capelli impomatati e consolle Nintendo e noi stavamo nella casa lussuosa del dottore che teneva, in mezzo alle foto di famiglia, una foto di Maradona.

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Maradona e il tatuaggio di Fidel Castro

Sapevo che Maradona era un drogato e mi faceva timore per questo. A scuola ci avevano parlato dei drogati ed ero convinto fossero pericolosi. Ma era un pensiero che durava poco, mentre tornavo al tavolo con gli avanzi della cena per ributtarmi sul dolce e alla tv sgargianti presentatori si apprestavano a chiudere il primo decennio della mia infanzia.

Il dottore aveva gli occhi azzurri, era bello, molto basso, sempre sorridente. Era il primo napoletano che conoscevo. Non era come le altre persone, aveva un modo di scherzare, un modo di affrontare le persone, un’energia, che io in Toscana non avevo mai visto a nessuno. Da lì, tutti i napoletani che avrei conosciuto li avrei ricondotti a lui. Mi sconcertava quanto fosse spigliato rispetto a me, nonostante io fossi un bambino e lui un adulto mi ci mettevo sullo stesso piano, ma era lui in primis a mettersi al mio. Quando si chinava su di me per montarmi l’apparecchio sentivo il profumo spruzzato per coprire il sudore, il dopobarba, l’aroma di un mondo mai visto trasudava dalla sua pelle abbronzata anche in inverno. Era ricco, simpatico, con la catenina d’oro, stava in Massoneria, venne la finanza e gli trovarono centinaia di milioni di lire di debito scoperto e gli sequestrarono una macchina forse, ma pochi giorni dopo era tutto come prima.

Parlava sempre in napoletano, parlava sempre di Maradona e se capitavi in studio il lunedì ti faceva il gesto dell’ombrello perché tu eri juventino e lui ti apriva la Gazza e ti faceva vedere le foto del suo dio: Diego (quanti miei amici nati negli anni 80 hanno quel nome grazie a Maradona…). Il dottore voleva sempre festeggiare, si vantava anche con me che avevo dieci anni di essere un gran chiavatore. Non me lo diceva chiaramente, ma capivo da ogni suo discorso che trasudava un’energia sessuale pazzesca, come Maradona del resto. Fu lui forse, il primo uomo che mi indicò il mondo femminile come oggetto del desiderio.

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Tatuaggi dedicati a Maradona

Nella mia mente ormai, il dottore e Maradona erano parenti e quando seppi che il campione era argentino rimasi scioccato: ero convinto fosse napoletano! Era il 3 luglio di sette mesi dopo e la nazionale veniva sconfitta dall’Argentina ai Mondiali di Italia ‘90. Piangevo. Odiavo Maradona perché ci aveva buttato fuori, aveva pure sibilato “figli di puttana” ai nostri tifosi che lo fischiavano e mio padre era saltato sul divano.

Negli anni sono cresciuto e me ne sono andato e di calcio non mi sono mai interessato troppo, ma Maradona l’ho sempre seguito come fenomeno antropologico. Mi irritava sempre per quel suo essere sopra le righe, smodato. Non parlo del campione, io detestavo l’uomo. Un invasato, convinto di essere dio in Terra. Uno che aveva evaso le tasse al fisco e se ne vantava. Il mondo di mio padre si era disgregato, il dottore era sparito e Maradona era sempre più fuori di testa. Ultimamente era un personaggio da meme su internet, in cui appariva strafatto e rintronato dalla droga.

Poi, un giorno di gennaio avevo la febbre e ho passato la mattina in casa a letto a vedere un documentario su Maradona. Non ricordo nemmeno, il nome, uno dei tanti bellissimi che hanno fatto su di lui. C’erano le immagini del suo paesino natale in Argentina e di lui che palleggiava nel fango e tornava a casa sul mulo di suo padre, assieme a una nidiata di fratelli, parenti, ragazzini coperti di fango e povertà. Era in Argentina ma poteva essere a Napoli, era Maradona ma poteva essere il dottore. E poi c’erano le immagini dei suoi anni più difficili, le cadute, le ricadute, la pressione che aveva addosso, la bravura devastante che metteva in scena ogni domenica. E poi ancora gli anni d’oro e degli inediti con audio di lui che entrava nel San Paolo e lo stadio ruggiva e lui faceva le magie coi piedi e migliaia di diseredati, disgregati, spiantati, piangevano e urlavano di gioia per aver fottuto la Juve del Nord, il Milan, l’Inter. E quegli stessi ultimi diventavano primi guidati da uno che era nato nel niente e aveva avuto una vita che nessuno di noi poteva nemmeno immaginare.

Così mi sono ritrovato a piangere per tutta la mattina e io non piango mai. Mai. Non l’ho mai raccontato a nessuno e oggi che Maradona è morto penso che io l’ho già pianto a gennaio. In fin dei conti ha vissuto al meglio delle sue possibilità ed è un miracolato anche solo per averli compiuti sessanta anni. Da oggi, finalmente, è davvero eterno. Da oggi è veramente un mito.

 

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