Nel tragico pomeriggio è stato tra i primi a scriverne, a tentare l'esercizio impossibile di districarsi tra lo sgomento e trovare le parole per rendere omaggio a un uomo che ha cambiato la storia del mondo, non solo quella del calcio, Diego Armando Maradona. Il rifiuto è spesso la prima reazione di fronte a un grande dolore. E quindi Maurizio De Giovanni, 72 anni, scrittore, napoletano, dalle pagine del Corriere della Sera ha esortato chi aveva appena letto incredulo della morte del Pibe a non credere a quella notizia. «Impossibile, una fake news». Un invito che conteneva il messaggio più profondo che uomini così sono immortali, mentre Maradona aveva lasciato davvero questo mondo, troncato da un attacco cardiorespiratorio nella sua villa di Tigre, poche settimane dopo aver compiuto sessant'anni.
Che forma ha questo dolore?
È un'emozione che nemmeno a saperlo prima avrei saputo dare la giusta dimensione. È come aver perso un fratello, che abitava lontano e a cui forse si è voluto meno bene di quanto meritasse. Avremmo dovuto proteggerlo di più. Pensavamo impropriamente che avremmo avuto un lungo futuro in cui poter stare insieme. Così non è stato. È un dolore forte che viviamo nella consapevolezza che non c'è riparo e non c'è ritorno.
Come si racconta Maradona a chi non l'ha vissuto e non è né napoletano né argentino?
Come l'erogatore di gioia più estrema per l'unica grande città che ha una squadra sola. Considerazione non secondaria. Perché significa che quella gioia è stata integralmente condivisa. Un unico grande contesto che si identifica fortemente con la squadra. E questa corrispondenza ha raggiunto la massima estensione negli anni in cui Maradona è stato qui.
E cosa sarebbe stata Napoli senza Diego Maradona?
L'incontro tra Diego e Napoli è stato qualcosa di soprannaturale e felice, confermata dal fatto che prima e dopo quell'unione né lui né la squadra hanno più vinto. In qualche modo è stato napoletano. Il fatto che non sia nato qui è assolutamente incidentale. Era il ragazzo del suo barrio, così simile a Napoli, perché tutte le capitali del sud del mondo sono un'unica grande città.
Immagino che anche lei consideri un'idiozia scindere il suo genio sul campo alle fragilità a cui ha ceduto fuori.
Le incoerenze erano apparenti, in realtà c'era una perfetta identità tra il Maradona calciatore e il Maradona uomo: istintivo, senza diaframmi, generoso, profondamente buono. Non metteva mai il suo interesse in primo piano. È diventato fragile perché, come un delicato calice di cristallo, era trasparente. Tutta la gente che gli ha succhiato il sangue nel tempo è stata abilitata a farlo dal fatto che lui non vedeva il male da nessuna parte.
L'impressione è che il rapporto tra Napoli e la figura di Maradona non cambi dopo la sua morte.
Non cambia affatto. Rimane vivo e resistente. In perfetta continuità Maradona esce dalla vita terrena e entra nell'epica, ma di fatto era nell'epica già da prima.
Crede che se fosse vissuto in quest'epoca avrebbe potuto compiere la stessa rivoluzione, sarebbe riuscito in ugual misura a riscattare il sud del mondo e diventare un simbolo “politico”?
Non credo che l'attuale sistema economico avrebbe consentito a Maradona di giocare in una squadra come il Napoli. E questo mi porta a considerare il calcio come un mondo che si è plastificato. Ma certamente se fosse dipeso da lui avrebbe scelto Napoli anche oggi e avrebbe compiuto la stessa impresa impossibile. Non so se glielo avrebbero consentito, ma lui era iconoclasta in ogni caso, aveva spezzato l'establishment del potere costituito in quegli anni in virtù di un talento immenso, imprevedibile, unico. Che non aveva nessuna possibilità di essere irregimentato.
L'immagine che meglio racconta la sua essenza?
Prima di tutto quella famosa dichiarazione: «Se fossi a un matrimonio vestito di bianco e arrivasse un pallone infangato, lo stopperei di petto senza pensarci». È quella che meglio lo definisce. Maradona era un bambino. A lui interessava il pallone. Non il gioco del calcio, proprio il pallone. Aveva un rapporto carnale col suo modo di giocare, con l'istinto. E poi i due gol contro l'Inghilterra, che non sono altro che lo stesso gol. Uno giustifica l'altro. Il primo è uno sberleffo in faccia alla pianificazione, il secondo è una dimostrazione tale di talento prevalente da giustificare anche il primo. Nessuno può dire nulla sul primo gol (la mano de Dios, ndr) dopo aver visto il secondo.
Guardiola ha detto di aver visto, qualche tempo fa, uno striscione in Argentina che recitava: «Non importa quello che hai fatto alla tua vita, importa quello che hai fatto alle nostre». Per la sua in particolare, cos'ha fatto?
Ha insegnato che questa città può vincere. Le ha insegnato che può essere primaria, che può condividere la soddisfazione di una vittoria di sistema. Una cosa che nessuno ha mai fatto prima di lui.
Se avesse potuto fargli un ultimo saluto, cosa gli avrebbe detto?
Ti voglio bene, Diego.
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