Questo non è sport. Questo è uno show, un programma televisivo, un film sul motorsport di quelli in cui per andare più veloci i piloti sul dritto pestano il piede sull’acceleratore senza alcun motivo preciso. È Drive To Survive in tempo reale e allora il titolo della serie Netflix non è mai sembrato giusto e realistico come oggi perché questa Formula 1 è guidare per sopravvivere.
Non per vincere, non per correre e basta, per lo sport, per la gloria e per la storia. No, no. Solo per sopravvivere. Che quella che abbiamo visto a Melbourne, in una maratona di tre gare diverse mascherate sotto forma di un unico Gran Premio, è stata una sfida alla sopravvivenza, poco altro. Su venti piloti in griglia solo dodici hanno tagliato il traguardo, seminando in pista i detriti di inutili incidenti voluti, cercati addirittura, in nome dello spettacolo.
Perché oggi la rabbia più grande che vediamo nelle interviste post gara è quella dei piloti più sfortunati, da Carlos Sainz finito dodicesimo dopo la penalizzazione di cinque secondi, alle due Alpine di Esteban Ocon e Pierre Gasly uscite di scena in una seconda ripartenza che poi, viste le decisioni della FIA per il finale di gara, è come se non fosse mai davvero avvenuta. Stiamo parlando di loro, della rabbia cieca dello spagnolo della Ferrari che si presenta al ring delle interviste scegliendo il silenzio: "Meglio se non parlo, davvero. Perché potrei dire delle brutte cose contro i commissari".
Ma potremmo parlare di qualcosa di peggio. Se si corre per sopravvivere, lo sport non esiste più. "FIA, ricordati per favore che lo sport viene per primo, l'intrattenimento per secondo. E non il contrario" ha tuonato sui social il campione del mondo di MotoGP Casey Stoner dopo la gara nella sua Melbourne.
E ha ragione. Ha ragione perché lo show di una ripartenza da fermi a due giri dalla fine del Gran Premio è qualcosa di impressionante da vedere, qualcosa in grado di ribaltare le classiche, di restituirci un podio forse diverso rispetto a quello che abbiamo immaginato per tutto il resto di una gara che - senza incidenti e interruzioni - si sarebbe potuta concludere pochi giri dopo il suo via. Ma è show, non è realtà. Non è mai stata questo, la Formula 1, e questo non deve diventare. Perché quando si mette lo show davanti a tutto il resto, il risultato non è divertente: è solo pericoloso.
Si espongono bandiere rosse per situazioni che, negli anni, sono sempre state risolte sotto regime di bandiera gialla con safety car, parlando di detriti da recuperare, piste da pulire in nome della sicurezza. Scelte che possono anche essere comprese, se fini a se stesse, ma completamente infondate se poi concluse con ripartenze dalla griglia, mettendo in scena tre gare in un solo Gran Premio e - soprattutto nella seconda ripartenza a due giri dalla fine - aprendo le porte a un disastro annunciato.
Perché la partenza in griglia è il momento più teso di tutto il GP, quello in cui avvengono più incidenti, dove le macchine sono più vicine: farne tre, per il gusto di vedere le monoposto di nuovo in condizioni complesse, è inconcepibile e inutilmente pericoloso. E infatti, il disastro c'è stato. Altra bandiera rossa, a un giro dalla fine della gara, per tre ore di spettacolo fatto di pezzi di monoposto che volano, piloti che escono dalle macchine, griglie che diventano sempre meno numerose. Dodici all'arrivo, tutti inferociti. Tutti salvi, per fortuna.
L'unica certezza è il vincitore: Max Verstappen. Che nel caos alle sue spalle ha sempre mantenuto salda la sua prima posizione ma che, guardando allo sport che ama, ha alzato le spalle: "Non ha senso, non li capisco". Nessuno li capisce, perché forse non c'è niente da capire. Dentro a uno sport che cambia regole e regolamenti, interpretazioni e penalità, modalità di intervento in incidenti, recupero di monoposto e pulizia della pista, non è rimasto molto da capire davvero. Solo che questo sport ha venduto una parte di sé allo show. E adesso si corre per sopravvivere.