Carlo Pernat, una vita nelle corse, di incidenti ne ha visti tanti. Brutti, terribili, anche mortali. Non ultimo quello di Marco Simoncelli, di cui era manager. Ma il genovese, in un’intervista rilasciata a Il Secolo XIX, spiega che la morte nel motorsport esisterà sempre e che va accettata. Senza ipocrisie, perché chi sceglie di correre sa a cosa sta andando incontro: “Chi fa questo mestiere sa che è a rischio - ha spiegato Pernat - quando sei sopra un motore sai che il rischio c’è. Succede per le moto, succede in Formula 1 e per le macchine in genere. Però il divertimento e la voglia sono così grandi che non ci pensi. Un po’ tutti gli sport sono a rischio, auto e moto di più. Va accettato che possano accadere tragedie come quella del povero Dupasquier. Se ci pensate, ogni cinque anni piangiamo un pilota: Tomizawa, Simoncelli, Salom. È drammatico ed è anche crudele dirlo, ma fa parte del gioco. Però se c’è stata proprio una cosa incomprensibile, per me, è stata quella parata dei piloti per commemorare il loro collega. A un quarto d’ora dall’inizio della corsa della MotoGP. Una cosa assurda! Immagino tutto quello che può essere passato per la testa dei ragazzi in quei momenti e dopo, quando è iniziata la corsa”.
Secondo il manager genovese, la soluzione più giusta sarebbe stata quella di far correre i piloti con la mente sgombra: “Farli correre senza dire nulla, lasciarli preparare come sempre, sono momenti delicati. I piloti salgono su moto che fanno i 360 all’ora, ma avete presente? Non sono l’unico a pensarla in questa maniera, erano d’accordo con me anche Agostini e Petrucci”.
Poi si rivolge a chi non avrebbe voluto correre, come Aleix Espargarò o Pecco Bagnaia: “Conosco bene Bagnaia, è un ragazzo molto sensibile. Io lo capisco, sono con lui. Non è una questione di paura perché chi ha paura non può fare questo mestiere. Lorenzo a un certo punto ha iniziato ad avere paura, lo aveva anche raccontato in alcune interviste. Arrivava decimo, quindicesimo, un pilota come lui. Poi gli è passata. In questo mondo non c’è spazio per la paura. Però per la sensibilità si. Capisco che un pilota a cui è stata appena comunicata la morte di un collega non sia nelle condizioni giuste per gareggiare. Quella parata non aveva senso: è come dire ai piloti che può succedere anche a loro di lì a poco”.
Resta il rischio di essere investiti, una paura che (come ci spiegava Luca Salvadori) non si può cancellare: “Negli ultimi anni sull’argomento sono stati compiuti passi avanti giganteschi: le piste hanno tutte vie di fuga ampie, una volta si correva con le balle di paglia a bordo pista davanti a muretti o rocce, cerano circuiti cittadini, insomma era tutto molto più pericoloso. Succede per le moto come anche per le auto. In Formula 1 l’abitacolo è sempre più protetto, regge urti impressionanti, ci si chiede, vedendo certi incidenti, come sia possibile. Anche sui materiali direttamente a contatto dei piloti hanno lavorato parecchio: i caschi superano crash test impressionanti, le tute proteggono molto. Se si cade e basta è difficile che accadano cose drammatiche, ti puoi rompere una clavicola, una tibia. Il problema, invece, è quando ti investono. Il rischio vero è questo. Quando succede, nessuno sa come può andare a finire”.
Sulla soluzione Superpole, già molto discussa per evitare il gioco delle scie in Moto3, Pernat spiega che può essere un’opzione, ma che non sarà mai risolutiva: “Forse fa parte del rischio che si deve correre. Certo, si potrebbe fare come nella Superbike, dove si corre soltanto per fare il tempo e in questo modo si forma la griglia di partenza. Potrebbe essere un’idea. Però bisogna ricordare sempre una cosa: i piloti vogliono avere dei cavalli sotto il sedere, altrimenti diventano tristi. Certo, la morte di un ragazzino lascia basiti tutti ma quello è il mestiere che si sono scelti. E quando lo hanno scelto sapevano anche che è un mestiere molto rischioso”. Ha concluso il manager, che in questo 2021 segue Enea Bastianini in MotoGP e Tony Arbolino in Moto2.