A 36 anni abbondanti, dopo avere vinto la semifinale con Alcaraz alle 22.41 di sabato, domenica Novak Djokovic ha alzato per la settima volta il trofeo delle Atp Finals, titolo 98 della sua carriera, contro un avversario di 14 anni più giovane e che, pochi giorni prima, era riuscito a batterlo per la prima volta. Jannik Sinner, però, in finale nulla ha potuto contro il serbo che, in fondo, ha vinto semplicemente per un motivo: perché è Novak Djokovic.
Il segreto è che un segreto non c’è. Ora, meglio partire da un assunto di base: il tennis brucia gran parte dei suoi campioni, quando va bene, nell’arco di una decina di anni, perché sia dal punto di vista fisico che da quello mentale sa essere straordinariamente logorante. Per i giocatori d’élite si parla di viaggi continui e jet lag da smaltire, tornei e partite ravvicinate, pressione mediatica talvolta bipolare e senza senso (pensate agli ultimi due mesi di Sinner, per dire) e la continua necessità di capire e valutare i dettagli di avversari affrontati decine di volte, sempre uguali e sempre diversi. I fenomeni di longevità sono eccezioni: lo è stato Federer, nonostante diversi problemi fisici lo è stato Nadal finché ha potuto, lo è Djokovic anche più degli altri perché, in carriera, per questioni anagrafiche li ha incontrati a lungo sulla propria strada. Ecco: interpretare la longevità agonistica di Nole è un esercizio di stile, perché tutto passa sotto una sola parola e un aggettivo: professionista maniacale.
I numeri parlano da soli, ma vedere Djokovic in campo dice molto di più, perché chiaramente non è più quello di dieci-dodici anni fa o delle 122 settimane di fila in testa al ranking Atp, non può esserlo, eppure non sembra che sia così. Ha mantenuto un’elasticità sostanzialmente impossibile da riscontrare nei suoi colleghi coetanei, e ciò gli ha permesso di evolvere il gioco in maniera intelligente, consentendogli di prendere praticamente tutto e di potersi così difendere con il contrattacco, potendo poi contare su un servizio e un dritto incisivi e capaci di fiaccare gli avversari anche nella testa. Tanto per essere chiari: quando è al meglio era ed è di un’altra categoria, rispetto al nuovo che avanza, ma i vari Sinner ad Alcaraz – sconfitti in finale e semifinale a Torino – hanno la possibilità di imparare molto da lui, non per l’immediato, ma per il futuro.
Sapersi gestire, dopo i trent’anni, è un aspetto fondamentale, ma ancora di più lo è cominciare prima, e il vantaggio di un professionista come Djokovic si vede in questo senso: vincerà ancora – e certo potrà anche perdere contro i più giovani, è normale – ma nei momenti decisivi il frutto degli allenamenti e della distribuzione dei carichi, l’attenzione maniacale a strumenti e materiali e gli effetti di alcune scelte – tipo la sua dieta, ormai celeberrima, ma anche la scelta di dove giocare e dove no – fa ancora tutta la differenza del mondo. La dieta, già: dall’autobiografia del 2014 (quando la definì “il fattore X, un cambiamento nella mia dieta che ha permesso al mio corpo di funzionare come doveva”), è diventata quasi leggendaria: gluten-free, caratterizzata da lunghe ore di digiuno, biologica, frullati, tofu e via, giusto per replicare gli aspetti che diventano titoli laddove il suo regime alimentare viene scansionato con dovizia di particolari.
Tra l’altro, abbastanza curiosamente, Djokovic – che negli ultimi anni è diventato, più o meno suo malgrado, un mito per i complottisti d’ogni specie – ha potuto vincere le Finals proprio perché Sinner dei calcoli e dei biscotti e dei complotti per eliminare il serbo se n’era altamente fregato, del resto un campione è tale se supera quelli più bravi, e questo un professionista lo sa, e allora a Sinner va il ringraziamento per avere “permesso” una finale come quella di domenica, a Djokovic vanno gli applausi per aver mostrato e dimostrato ancora una volta perché è il numero uno.