Il tennis è questo. È un gioco che cambia in continuazione, che restituisce come rovesci lungo linea colpi che fino a poco prima sembravano impossibili. Un gioco di potere mentale, di gambe e polmoni ma soprattutto di testa. Il tennis è come entri in campo, come rispondi alle difficoltà, come ribalti una partita. Un tennista nel corso della sua carriera può cambiare decine di volte, così come, nel corso di una sola partita, può sembrare cento, mille, cose diverse insieme. E se lo scontro tra Davide e Golia di Sinner contro Djokovic nella partita ai gironi delle ATP Finals di Torino di martedì ha avuto un aspetto, la stessa partita nella finalissima di domenica ne ha avuto uno diverso, completamente opposto.
Domenica per Jannik non c'è mai stata storia, annientato dalla forza di un Djokovic che non sembra calare mai, nel fisico e nel livello di gioco, nella preparazione e nella fame di vittorie. Dopo la sconfitta di martedì sembra aver studiato il cambiamento del suo avversario, aver imparato dove e come l'italiano nel corso degli ultimi mesi ha modificato il suo gioco, e facendolo lo ha lasciato senza carte da giocare a partire da una forza in battuta che brucia tutto quello che ha intorno.
Ma Djokovic è Djokovic, il tennista più vincente della storia del tennis moderno, il più odiato forse, il più straordinario nella forza mentale e fisica senza ombra di dubbio. Un atleta che si è rialzato dalle fatiche di anni difficili, infortuni, cambi di allenatore, stile di vita, obiettivi. E davanti alla grandezza di un tennista straordinario e di un uomo intelligente, il giovane Sinner applaude e ringrazia, senza mostrare nel fondo dei suoi occhi scuri un mino di risentimento, di delusione, di uno di quei sentimenti umani che il tennis strappa dalle ossa dei protagonisti e getta in piazza, al centro della scena.
Jannik alza la testa e corre ad abbracciare il suo team, gli uomini che in un anno di lavoro insieme lo hanno cambiato, restituendogli la gioia del tennis, mostrandogli che cosa poteva fare per diventare chi era destinato a essere: "All'inizio dell'anno ero un tennista e oggi sono un altro", dice ringraziandoli durante il suo discorso dopo la sconfitta, spiegando con le parole quel gesto spontaneo, quell'abbraccio collettivo che nelle braccia lunghe contiene tutti, chiunque abbia creduto in lui in una settimana di sogno italiano.
Alza la testa e guarda il pubblico, il suo pubblico, con lo sguardo stupito di chi non sembra rendersi conto davvero di quello che ha mosso, di che cosa ha creato. "Come me, Valentino Rossi e Federica Pellegrini" ha detto all'inizio della settimana Alberto Tomba, accogliendo Sinner nel cerchio ristretto di "quelli lì", di quei pochi italiani che sanno muovere la gente, restituire lustro a uno sport, renderlo di tutti, popolare, bello e sofferto come poche cose abbiamo da vivere. E Jannik guarda la gente che anche dentro la sconfitta lo conforta, lo applaude e lo incita al grido di Olè Olè Olè, Sinner Sinner promettendo un epilogo diverso, sorridendo timido con lo sguardo finalmente di un ragazzo della sua età, di un 22enne che in campo scompare.
"Mi avete raccolto come un piccolo bambino, mi avete dato forza nei momenti difficili, non solo in campo ma anche fuori dal campo" dice al suo pubblico, toccandosi qua e là i capelli rossi, liberi dopo la gara dal cappellino bianco che li nasconde. E sta tutto lì, in una frase che fa esplodere Torino di applausi e che scalda il cuore di chi "quel bambino piccolo" ha sentito di proteggerlo davvero, di incitarlo, di sentirlo vicino, suo, nostro. Un affetto collettivo che ci riguarda poche volte, che ci prende così, dallo stomaco, quando qualcuno riesce a risvegliare la passione per uno sport. E anche se Sinner dovrà accontentarsi di un secondo posto da cui ci sarà da ripartire in fretta, leccandosi le ferite, la magia è iniziata: il "bambino piccolo" è di tutti, e Jannik è finalmente tra i grandi.