Quando lo guardiamo giocare lo riconosciamo subito, Jannik Sinner. Come se fosse sempre stato lì, con il ghigno del vincitore, il sorriso appena accennato e la lingua tra i denti che spunta all'ombra del cappellino bianco. Se ne sta in piedi, con le braccia lungo i fianchi, a guardare negli occhi il suo avversario appena sconfitto, l'altro, il nemico. Anche quando "l'altro" risponde al nome di Novak Djokovic ed è il tennista più vincente della storia, il serbo di ferro. Uno che per quello dall'altro lato del campo, chiunque sia, non ha pietà: lo prende, lo spezza, lo distrugge fisicamente e poi lo sfotte, imitandolo, mostrandosi annoiato o divertito. Uno spettacolo crudo da guardare, devastante da vivere, qualcosa che ricorderemo di lui, del suo tennis perfetto, della sua mentalità senza eguali che lo ha portato a risollevarsi dopo un periodo nero, quello del 2017, e tornare a dominare in uno sport logorante nonostante i suoi 36 anni.
Fa paura quando vince, Novak Djokovic, ma fa più paura quando perde. Con il viso lungo sfigurato dalla fatica, gli occhi infossati. Eppure Jannik, con la leggerezza dei suoi 22 anni, da vincitore non abbassa lo sguardo. È la prima volta per lui e non vuole dimenticarla, vuole tenerla lì, ricordando il giorno in cui a casa sua - sul campo blu delle ATP Finals di Torino - ha battuto il re. Sono i gironi, la semifinale del torneo è ancora lontana, e non siamo a Wimbledon, a Roland Garros, o agli US Open, Jannik lo sa bene. Però è la prima volta, e ora sa di poterlo fare, di poter battere anche lui. Ha sconfitto più volte il suo amico e primo avversario generazionale, lo spagnolo Carlos Alcaraz, ha battuto Daniil Medvedev, Alexander Zverev e molti altri. Ma Djokovic no. Con lui il campo era ancora imbattuto, di totale dominazione serba.
Non sorprende vederlo vincere, sapere che dentro di sé un giorno avrebbe trovato tempi e modi, costanza e potenza. Soprende invece vedere la maturità con cui ha gestito un confronto che schiaccia chiunque, anche i più grandi. Ed è proprio per questo che guardandolo lì, vincente e già pronto a tornare in campo, a giocarsi tutto di nuovo, Jannik assomiglia a qualcuno che già conosciamo. Giovane e trascinatore, come il primo Valentino Rossi, ragazzino in grado di muovere l'interesse delle persone per uno sport che prima di lui apparteneva a pochi. Coinvolgente e leader, come il miglior Alberto Tomba, mostro di uno sport che ancora oggi in Italia e nel mondo porta il suo nome. Dinamico e intelligente, come il Roger Federer degli anni d'esordio, il tennista più bello da guardare, quello che anche nelle sconfitte sembrava venire da un altro mondo, da un luogo di mezzo in cui il campo era religione.
Lo guardiamo, Jannik Sinner, correre sul campo blu delle Finals di Torino, e lo riconosciamo. Come uno di quelli lì, uno di quelli forti, concreti, di quelli che ci lasceranno qualcosa, e ci viene voglia di fare paragoni: sul suo bel palleggio da fondo campo, sulla costante accellerazione di gioco, su quale tennista ci ricordi la sua fisicitià, o su quale altro sportivo sia stato in grado, negli anni, di far appassionare così tante persone ad uno sport complesso come il tennis, solitamente lasciato ai soli grandi appassionati disposti a passare tre, quattro ore davanti alla televisione per un match.
Si sprecano i nomi, i confronti. Tutti hanno senso e tutti in qualche modo sono sbagliati. Com'è sbagliato il grido di Nicola Pietrangeli, uno dei tennisti più forti della nostra storia, che appena un mese fa disse che a Sinner non "sarebbero bastate due vite" per battere i suoi record ottenuti in carriera. Un rumore di fondo che si aggiunge a quello di chi ha trasformato un ragazzo di vent'anni in un "caso nazionale" per aver rinunciato a rappresentare l'Italia alla Coppa Davis di quest'anno, o a chi lo critica per la residenza a Montecarlo, per l'italiano un po' impacciato da altoatesino.
Ma Sinner alza le spalle e non abbassa gli occhi, proprio come davanti a Djokovic. Sembra non accorgersi di niente, sembra non interessarsene. Ma vede tutto, sa tutto, perché un tennista non è mai distratto. Nell'arena dove lotti "fino alla morte mentre gli spettatori mangiano panini al formaggio", Jannik rimane se stesso. Nell'arena di chi lo vuole già proclamare il prossimo numero uno del tennis internazionale, che poi è la stessa di chi lo vuole distruggere ad ogni costo, Sinner guarda avanti. Si prepara in risposta, il resto su di lui lo racconterà il tempo.