È prematuro paragonare Jannik Sinner ad Alberto Tomba, Valentino Rossi, Federica Pellegrini. Perché ha 22 anni, perché ogni campione ha la sua peculiarità, la sua storia, e quella di Jannik è solo all’inizio. Però gli va dato atto di aver tenuto in scacco l’Italia, a suon di vittorie, per una settimana. A Roma, in Viale Mazzini, sono state indette riunioni straordinarie per stravolgere i palinsesti ed evitare qualsiasi tipo di controprogrammazione nei confronti delle ATP Finals. Ascolti di massa, share che – quando scende in campo il tennista di San Candido – si impenna come la parabola di uno smash.
Italiani che modificano i propri impegni infrasettimanali, plasmandoli a seconda di ciò che accade al Pala Alpitour. A giorni alterni, fanno in modo di tenersi un margine di libertà di almeno tre ore, successive al “testa o croce” del giudice di sedia, che inaugura la sfida tra Jannik Sinner e l’avversario di turno. Non sono i due minuti scarsi dei 200 stile libero alle Olimpiadi, non è il minuto e mezzo di uno slalom gigante. Non sono i quaranta minuti della MotoGP, ma nemmeno i novanta della Nazionale di calcio e della speranza che la Ferrari torni a guardare il mondo dal gradino più alto del podio. Tre ore. Pazienza. Sacrificio. È il Tennis.
Allora, siccome alla sera c’è Sinner, cerchiamo di spuntare con solerzia ed efficacia tutte le caselle dell’elenco delle “cose da fare”, appuntate sull’agenda. Evitiamo di perderci in chiacchiere, in discorsi inessenziali. Siamo distaccati, imperturbabili, concentrati a mettere dentro la nostra prima di servizio e archiviare il dovere. Poi ci mettiamo comodi. Su Rai 2 il commento tecnico è affidato ad Adriano Panatta, su Sky a Paolo Bertolucci. Il primo è sornione, si inserisce quando ne ha voglia, ma lascia sempre il segno. Il secondo è più enfatico, più diplomatico. Si completano alla grande, come facevano quarant’anni fa in doppio.
Prendersi del tempo per guardare il Tennis, oggi, vuol dire avere pietà della propria mente, del proprio corpo. Perché non è solo l’epoca in cui veniamo bombardati di messaggi e notizie, ma anche quella in cui la tendenza ci porta ad aggiungere, aumentare, riempire fino all’orlo. Quell’overplanning che fa scena, fino a quando il gioco non implode. A volte per rilassarci, per stare bene, è sufficiente ascoltare l’impatto di una pallina al centro del piatto corde, attutito da un “ohhh” del pubblico. Basta lo stridio delle scarpe sulla superficie azzurro ghiaccio di Torino, ammorbidito dall’eco soffice di una stop-volley, dai silenzi che avvolgono la ritualità di un servizio. Per questo vorremmo inondare le casse del Pala Alpitour, che ai cambi di campo sparano musica buona per un rave party. Il Tennis è già musica di per sé, non serve sporcarla aggiungendone dell’altra. Ma non si può avere tutto.
Che poi l’Italia da Sinner si aspetta regolarità, nessuna improvvisazione. Di Jannik stupiscono costanza nel lavoro, rigore, umiltà ed esultanze contenute mentre il mondo dello sport si distende ai suoi piedi. Sorprende ancor di più la sensazione di controllo che trasmette quando le situazioni si complicano. Un contegno inscalfibile, che non lo fa mai esagerare, andare sopra le righe, oltre i margini, al di là dei toni appropriati e consentiti. Sinner sta in campo, sta sempre in partita, qualunque cosa accada attorno a lui. Sta zitto e gioca. E spesso vince.
Noi guardiamo, continuiamo a guardare senza staccare gli occhi dalla pallina. Come se ci ipnotizzasse il desiderio di replicare nella vita di tutti i giorni l’atteggiamento di Sinner sul campo da tennis. L’Italia che si blocca davanti a Jannik è un’Italia che cerca di essere migliore. Onesta come lui, che evita scorciatoie, raggiri, sotterfugi. Contro Holger Rune, Sinner – già qualificato per le semifinali – avrebbe potuto inscenare il più classico dei biscottoni per sbattere Djokovic fuori dal torneo. Non l’ha fatto, nemmeno quando alla fine del secondo set la schiena cominciava a pungere e il ritiro sembrava una comoda alternativa offerta dal cielo. Non l’ha fatto perché Jannik Sinner è un figlio del Tennis, di qualcosa di più alto, di puro.
Ecco, l’Italia vorrebbe essere così. Fredda, pragmatica, pulita nelle intenzioni e nei fatti. Un po’ più altoatesina. Vorremmo avere la forza di essere rispettosi ed eleganti sempre, anche quando veniamo provocati, innervositi da chi abbiamo di fronte, dall’altra parte della rete. Vorremmo togliere, eliminare il superfluo e concentrarci sull’essenziale. Purificarci dalle mode, dai vizi, concentrarci su ciò che ci fa stare bene. Praticare la nostra religione: tre ore di Tennis, tre ore di Sinner, al giorno. Tra una settimana c’è la Coppa Davis, lì il tempo è un concetto relativo. Non disturbateci. Silence, please.