Quando Jean Varraud del Cannes lo vide giocare a quattordici anni, ne restò colpito. Gli dissero: “Se lo prendi, stai attento, è un violento”. Ma Varraud vide giusto: quel ragazzino cresciuto tra le strade di Marsiglia era un predestinato. Ha dispensato lampi di arte alternandoli a improvvisi blackout, dalle prodezze mondiali alla testata a Materazzi che, a mio avviso, ha coronato la sua carriera. Perché con lui funziona così, perché Zizou è stato l’alfa e l’omega, il giorno e la notte, il bianco e il nero, come i colori con cui ha rivelato al mondo tutto il suo genio calcistico.
“Se lo prendi, stai attento, è un violento”. A nostro avviso, la testata a Materazzi ha coronato la sua carriera
La domanda che per un attimo hanno pensato tutti gli appassionati e non (se lo è chiesto anche mia madre, per intenderci) è: ma che cosa avrà mai detto Marco Materazzi a Zinedine Zidane? Mandiamo indietro la moviola della Storia al mattino del 9 luglio 2006, e fermiamola su una sequenza soltanto, composta da tre soli fotogrammi, le pagine 1, 2 e 3 di un giornale francese: Libération, il celebre quotidiano fondato da Jean-Paul Sartre; quindi, non un foglio sportivo affetto da calciomania acuta, diciamo così, ma un quotidiano d’informazione generalista, pur essendo, il Libé (come è chiamato dai suoi lettori), un giornale più “colto” della media. In prima pagina c’è la faccia a colori di Zidane; il titolo, a lettere cubitali, lo battezza con il nome di un film del regista Luc Besson, un film sulla vita segreta degli abissi: Le grand Bleu. Il sottotitolo giustifica così il solenne riconoscimento: “Mettendo fine alla sua carriera nella finale di Coppa del Mondo Zidane entra nella leggenda”. Quando la finale di coppa del mondo era a dodici minuti appena dal fischio di chiusura, uno dei più grandi calciatori di sempre, in uno dei giorni più importanti della sua carriera, sotto gli occhi esterrefatti dell’intero telepianeta, ha fermato di colpo l’orologio della storia del calcio che gli ticchettava dentro inesorabile, e gli ha girato le spalle, percorrendo in direzione ostinata e contraria un deciso e decisivo passo verso quel ragazzino violento cresciuto tra le strade di Marsiglia, sferrando una poderosa testata a un giocatore, Materazzi, annullandolo definitivamente. (Se pensate che io sia pazzo, non me la prendo, ma Materazzi, da quel momento in poi, non sarà più ricordato come colui che segnò il gol del pareggio in una finale di Coppa del Mondo). Il geniale figlio delle tristi periferie, trasfigurato in popolare sciamano, aveva compiuto il passo verso gli inizi della sua carriera, quando, giovanissimo, aveva attraversato di corsa l’intero campo di gioco per sferrare un’incornata a un irritante avversario.
Prima di raccontare la testata a Materazzi, credo sia importante sottolineare il calcio di rigore battuto da Zizou in quella finale: Zidane contro Buffon significava, in quel momento, mettere il giocatore più forte del mondo contro il portiere più forte del mondo. Immagino che ve lo ricordiate tutti: Zidane segnò con un “cucchiaio”. Fabien Barthez dirà in seguito di aver pensato di Zidane: “Quello è matto!”. Ma Zidane non era impazzito. Zidane sentiva semplicemente su di sé, senza il benché minimo dubbio, il favore degli dèi. La spiegazione più limpida di quel tiro “da matto” l’ha data lui stesso in un’intervista, con quel suo sorriso schivo, da genio introverso e di poche parole: “Volevo che quel tiro fosse ricordato per sempre”.
Zidane sentiva semplicemente su di sé, senza il benché minimo dubbio, il favore degli dèi: “Volevo che quel tiro fosse ricordato per sempre”.
Io, uomo di provincia, quando ho bisogno di sentire qualcosa che vada oltre, oltre a quella banalità pregna di bruttezza, quando voglio qualcosa che mi ricordi di non diventare mai furbo, abile e materialista, io mi metto ad ascoltare – che cosa sciocca direte – i pezzi che ascoltavo da adolescente, soprattutto le versioni sporche tratte dai live, le più belle di tutte. E mentre ascolto quei pezzi ripenso a quando, tredicenne, mi alzai di scatto dal banco di scuola per dare una testata sul naso al secchione della classe, un tipo grosso e roscio che mi aveva chiamato con l’appellativo sbagliato. Mi disse: “Ora diventerai il cocco dei professori”. Avevo perso mio padre per un incidente stradale: investito. E questo non è tutto quello che avrei da dire, in mezzo ci sono i sensi di colpa, che non sto qui a specificare. Sapevo che non avrei potuto surclassare quelle parole scrivendo (come era accaduto) un compito in classe di italiano migliore del suo (migliore: con un voto più alto). Dovevo surclassare la vita, la vita come è fatta: dovevo superare me stesso e la sua ineluttabilità. Non dovevo dipingere: dovevo squarciare la tela. “Non insisteremo mai troppo sull’affermazione appassionata che scorre nel moto di rivolta e lo distingue dal risentimento”. Albert Camus. Io, uomo di provincia, quel gesto di Zidane l’ho compreso e, forse, l’ho compreso prima che accadesse.
Quanto segue è ispirato/tratto al/dal libro Zidane, anatomia di una testata mondiale di Sergio Manghi.
Il New York Times, nel dicembre 2009, ha posto la celebre “testata” di Zidane al vertice degli episodi sportivi del decennio. E ci sarebbe da chiedersi se l’aggettivo “sportivo” non vada troppo stretto a quell’evento, al quale hanno assistito simultaneamente, a quanto pare, oltre due miliardi di persone. Uno stadio virtuale esteso all’intero pianeta, come non era mai accaduto prima nella nostra storia, gremito in ogni ordine di posto. Un grande cerchio ideale, intorno all’Olympia Stadion di Berlino, cuore d’Europa, già sinistro scenario delle parate hitleriane. L’arena che ospitando i Giochi Olimpici nell’anno stesso della sua fastosa inaugurazione, il 1936, aveva visto l’atleta afroamericano Jessie Owens, “lampo d’ebano”, vincere ben 4 medaglie d’oro sotto gli occhi sgomenti del Führer.
Il settimanale francese Paris Match, nell’agosto 2008, ha pubblicato un’intervista-sfogo a tutto campo a Ingrid Betancourt. L’ha raccolta il giornalista Michel Peyrard, in aereo, la notte stessa del suo rientro in Francia, dopo i terribili sei anni di sequestro da parte delle FARC, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia. Eccone un brano cruciale: Peyrard: “Di tutto quello che hai ascoltato alla radio durante questi anni, quali sono gli eventi internazionali che ti hanno colpito?” Betancourt: “La Coppa del Mondo di Calcio. Ho pianto quando la Francia ha perso. Peyrard: “La testata di Zidane?” Betancourt: “L’ho adorata. Credo che avrei fatto la stessa cosa! Mi sono arrabbiata con quelli che l’hanno criticato. Questa Coppa del Mondo non ha mancato di creare problemi nel mio accampamento, perché c’erano i pro-Ingrid, dunque pro-Francia, e i partigiani dell’Italia…”.
Nel marzo 2007, sul quotidiano La Repubblica è apparsa un’inchiesta di Mario Calabresi sui rifugiati politici negli Stati Uniti. L’articolo chiudeva con un’intervista a un giovane ruandese, Jean-Claude, sopravvissuto a una tragedia terribile: madre hutu, padre tutsi, uccisi dalle rispettive etnie rivali. Lui stesso salvo per miracolo, insieme al fratello, da una morte orrenda. Sono seguiti lunghi mesi di campo profughi, fino all’inizio di una nuova vita, negli Stati Uniti, appunto. Il pezzo di Calabresi si conclude così: “Non hanno più nulla, neanche una valigia. ‘Abbiamo la vita’, dice Jean-Claude spiazzandoci, ‘e adesso abbiamo anche la possibilità di viverla’. Mentre sto per uscire dalla loro stanza, timidamente mi richiama. È imbarazzato: ‘Avrei una domanda, se per favore mi può aiutare. Vorrei capire’. Gli dico di non farsi scrupoli, qualunque cosa. ‘Ecco, vorrei sapere una cosa, ce lo siamo chiesti tutti per mesi al campo profughi: che cosa ha detto Materazzi a Zidane?’”
L’improvvisa, incredibile testata del fuoriclasse Zinedine Zidane al petto del difensore italiano Marco Materazzi è un evento più carico significati di quanto non sia apparso finora alla superficie dell’opinione pubblica, sportiva e non. Significati che hanno a che fare con l’anima profonda del nostro tempo. Con l’animosità profonda, potremmo ben dire, del nostro tempo. E insieme, con il desiderio profondo – e profondamente frustrato – di riscatto, di rivolta, di cambiamento, che percorre le viscere di questa nostra società-mondo in travagliata gestazione […].
In questo libretto mi propongo di sondare il groviglio di significati e di passioni del nostro tempo che la sensibilità di uno Zinedine Zidane, altamente, rischiosamente esposta alle luci brucianti di quella notte, ha condensato in quella “testata mondiale”. Per tentare, se possibile, di scioglierla dalla presa delle banalizzazioni che l’hanno immiserita. Mi riferisco in primo luogo alle banalizzazioni che l’hanno ridotta a mera risposta meccanica: “Zidane non era nuovo a reazioni di quel genere”; o più sbrigativamente: “raptus”, “stress” e simili. Ma mi riferisco anche ad altre banalizzazioni, in un certo senso di segno contrario, che quel gesto l’hanno variamente idealizzato quel gesto (Betancourt inclusa?). Quelle banalizzazioni, cioè, che l’hanno ingabbiato nell’empireo delle risposte moralmente superiori alle “inaccettabili” offese verbali di un avversario scorretto. Quando addirittura non l’hanno iscritta nell’albo d’oro delle risposte rivoltose […].
Un’atmosfera davvero indescrivibile. Al cui vertice scintillante brillava l’icona scintillante dell’indiscusso Messìa: Zizou. Ci avrebbe pensato Lui, magicamente: come già nel 1998, quando due suoi goal (di testa!) strapparono la Coppa del Mondo, nientemeno, al Brasile. E com’era accaduto di nuovo nel 2000, quando Zizou trascinò i Bleus a sconfiggere proprio l’Italia, un’Italia fortissima, più forte dei Bleus, nell’epica finale del Campionato Europeo. Dopo questi trionfi, va ricordato, Zidane aveva lasciato la nazionale. Quello del Mondiale 2006 era pertanto un ritorno dell’eroe, come nel più classico dei copioni mitologici: IL REVIENT, aveva titolato sinteticamente pochi mesi prima, a caratteri giganteschi, il quotidiano sportivo L’Equipe: Zizou avrebbe addirittura concluso la sua magnifica carriera, in quel torneo mondiale. IL REVIENT, semplicemente… […].
La domanda, oltre un anno dopo, ha trovato risposta. Marco Materazzi ha rivelato di aver offeso, con un’ingiuria che chiunque può facilmente immaginare, la sorella di Zidane. E abbiamo avuto così la conferma più netta e definitiva, se mai ce ne fosse stato bisogno, della semplice verità che fin da subito, in fondo al cuore, abbiamo sospettato: quella è una domanda, sbagliata. Semplicemente una domanda sbagliata. Una falsa partenza. Una partenza che mobilita pensieri e fantasie in una falsa direzione, come nella storia dell’ubriaco che aveva perso le chiavi, e le cercava sotto un lampione acceso perché lì ci si vedeva bene, anche se le aveva perse da un’altra parte, lontano, nell’oscurità […].
La verità dobbiamo cercarla da qualche altra parte, lontano dal lampione illusorio del nostro teleschermo. Non va cercata, in breve, in quel che sta accadendo in questo momento tra Zidane e Materazzi, ma in quel che sta accadendo, in questo momento, tra Zidane e la patria francese. Tra Zidane e la folla festante degli enfants de la Patrie che l’hanno voluto a gran voce in campo, tutti insieme. Dalle città alle banlieues, una sola voce […].
Il talento di Maradona e il carisma di Pelé. Martin Luther King e Dalai Lama. Questo è Zizou
Fotogramma 2. Seconda pagina. Altra grande foto a colori. Gradinata del Parco dei Principi, il mitico stadio parigino, sulla quale campeggia un enorme striscione con la faccia, di nuovo, di Zizou. I tifosi francesi stanno seguendo, su maxischermo, la semifinale di Coppa del Mondo che si gioca a Monaco di Baviera: Francia-Portogallo. Partita che verrà assegnata ai Bleu da una rete su calcio di rigore, nemmeno a dirlo, di Zinedine Zidane. Sotto la foto, un pezzo giornalistico intitolato a tutta pagina: Vénération Zidane. Il pezzo prosegue a pagina 3.
Fotogramma 3. Pagina 3, appunto. Primo piano su un dettaglio: un brano che riassume bene il senso del pezzo Vénération Zidane. Testualmente: Per tutti oggi Zidane è il talento di Maradona e il carisma di Pelé. Una mescolanza di Abbé Pierre e di Gandhi. Di Martin Luther King e del Dalai Lama. E non soltanto per la stampa francese. La Zidanomania è mondiale. Incensato dalla grande stampa, come negli Stati Uniti: “L’uomo più cool del mondo”, si compiace il New York Times, che suggerisce di “fare un film di promozione con immagini dell’entusiasmo di Zidane e mostrarlo ai giocatori, giovani e vecchi”. E ancora, di seguito, sempre testualmente: Venerato persino dalla stampa dei tabloid, a Londra: “Zizou, Zorro, Ze Man, chiamatelo come vi pare”, zizzeggia The Sun; “Un’ultima dimostrazione dei suoi talenti magici sulla più grande di tutte le scene”, commenta il Daily Mirror, che s’infligge persino un “Forza Bleu!”. Un po’ come se la guida Michelin si mettesse a vantare la cucina inglese…
Così, dunque, Libération, la mattina di quel 9 luglio. Testualmente, ripeto. Misura attendibile, spero, di chi era Zizou in quella notte mondiale. Misura, per dirlo con altre parole, delle attese che la patria francese riponeva, quel giorno, nei suoi talenti magici. Nei talenti magici di Zinedine, il figlio di immigrati algerini, cresciuto nell’angiporto di Marsiglia, chiamato a guidare la squadra nazionale francese. Una squadra nazionale, si ricorderà, composta quasi interamente da giocatori di colore. Poi, la notte di quello stesso giorno, Zizou-Zorro-Ze Man sferra quell’incornata poderosa al petto di un Marco Materazzi del tutto ignaro, palesemente, di quel che sta per accadergli. Questo il commento in diretta di Fabio Caressa, incontenibile cronista della rete Sky: Eh no… Eh no… Eh no… Eh no! Non si può! Rischia di rovinare una carriera con una testata! Indecente, Zidane, indecente! È il giocatore che ho amato di più nella mia vita… Se non lo cacciano è uno scandalo! Uno scandalo!! Uno scandalo!! Zidane verrà in effetti cacciato, e lascerà il terreno di gioco a testa bassa. Triste, solitario y final, per dirla con il titolo di un romanzo di Osvaldo Soriano, scrittore argentino che è stato anche calciatore, e forse non a caso. Ai Bleu toccherà concludere la partita senza il loro leggendario capitano. Usciranno sconfitti, come sappiamo, all’ultimo secondo, nella sfida dei calci di rigore, e sotto l’Arco di Trionfo le luci preparate per la grande festa del giorno dopo rimarranno spente. In seguito, Zidane verrà anche punito, con una squalifica. Molto blanda, possiamo tranquillamente aggiungere, in rapporto alla gravità del gesto. Ma fermarsi a giudicare, porta, francamente, poco lontano. Caricarsi di indignazione, scandalizzati, contro Zizou, o magari contro il calcio corrotto e corruttore, ci fa sentire buoni e giusti a poco prezzo, ma porta poco lontano la nostra immaginazione, la nostra comprensione. La nostra comprensione del pianeta calcio, e la nostra comprensione del pianeta mondo.
Lo scrittore-cineasta belga Jean-Philippe Toussaint, presente quell’epica notte allo stadio berlinese, si è soffermato in particolare sulla malinconia di Zidane (Toussaint, 2006). E ha visto rispecchiato in quella malinconia l’umore che coglie l’artista nel momento in cui, a un passo dal termine dell’opera, sente di colpo sfuggirgli di mano il suo compimento finale: la sua stessa malinconia di artista: “la malinconia di Zidane è la mia malinconia, la conosco, l’ho nutrita, la sento” (Toussaint, 2006, trad. it. p. 15). La celebre “testata” è stata per Toussaint un guizzo creativo dell’artista di fronte al rischio incombente del fallimento. Un “gesto calligrafico”. Un colpo di genio, che ha proiettato l’artista Zidane al di fuori e al là del gioco del calcio, trasformando una sconfitta incombente in una vittoria: non potendo “segnare un gol”, scrive Toussaint, Zidane “segnerà le menti”: la forma, adesso, gli resiste – ed è inaccettabile per un artista, conosciamo bene i legami che uniscono l’arte alla malinconia. Incapace di segnare un gol, segnerà le menti.
Sa molte cose, Zidane. Cose che a volte prendono una forma in apparenza assurda. Cose che non ha detto ma che sa
Pochi mesi prima della finale Italia-Francia del 2006 qualcuno era morto, di pelle scura. Bouna e Zihed, due ragazzi immigrati di seconda generazione, come Zidane, si erano rifugiati per fuggire alla polizia in una cabina dell’alta tensione, ed erano stati fulminati. Per mesi le banlieues sono andate in fiamme, rabbiosamente. Zidane lo sapeva bene. Anche per loro, avrebbe desiderato vincere. E infatti quella testata, senza la quale forse la Francia di Zizou avrebbe vinto, e allora avrebbero esultato orgogliosamente come di rado possono permettersi fare, anche loro danzando per un giorno intorno all’Arco di Trionfo più alto del mondo – quella testata, gliel’hanno perdonata. Di più: hanno finto insieme a lui che fosse la cosa migliore da fare in quel momento, costasse quel che costasse, finendo persino per crederci davvero, a questa pietosa bugia. E anche questo Zidane lo sa.
Sa molte cose, Zidane. Cose che a volte prendono una forma in apparenza assurda. Cose che non ha detto ma che sa. Emblematico un altro episodio. Conferenza stampa pre finale di Champions, quella che per il Real (e per lo Zidane allenatore) potrebbe essere la terza di fila (la terza!). Il Real è fuori dai giochi dalla Liga spagnola. Un giornalista chiede a Zidane: "Se perdete la stagione del Real si può considerare un fallimento?". Zidane guarda da un'altra parte. E risponde: "Il fallimento è solo nell'atteggiamento". Sei parole, una consapevolezza lunga una carriera. Sei parole dette da chi ha vinto tutto, da chi ha vinto sempre o quasi e che sa che non si perde mai se dai tutto. Sì, Zidane sa un sacco di cose. Sa anche che nella finale contro l'Italia è stato giusto espellerlo, e l’ha riconosciuto pubblicamente. Sa che il suo è stato un esempio sbagliato, e ha chiesto scusa ai milioni di bambini e a tutte le persone che lo ammirano. Sa anche che ha rischiato di far male a Materazzi, un difensore malizioso come altri che con i suoi umanissimi fantasmi interiori di quel momento non ha niente a che fare. E sa che un giorno gli parlerà, come finora non gli è riuscito di fare, tanto strette sono le maglie della corazza che il mondo gli vuole addosso fin da quand’era ragazzino. E sarà la sua rivolta.