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Essere Valtteri Bottas

  • di Nicolò Corbinzolu

7 aprile 2021

Una gara che dura da anni in direzione ostinata e contraria alle critiche

di Nicolò Corbinzolu

Se c’è uno che ha il mestiere più difficile degli altri all’interno del paddock della Formula 1, che si sveglia la domenica mattina con un cerchio alla testa dato da molte preoccupazioni e poche speranze per la gara, che deve fare i conti da 5 anni con la pressione di avere il compagno di box più veloce del circus, quello è, inevitabilmente, Valtteri Bottas.

Dura vita quella del finlandese, che anno dopo anno, nonostante abbia tra le mani la monoposto più veloce in pista, non arriva mai a vincere il titolo, per colpa di quel Lewis Hamilton, compagno di squadra cannibale e mai domo, frantumatore di record, che lascia a lui e gli altri piloti le briciole: al massimo qualche pole e vittoria durante la stagione, ma solo con gli astri allineati.

“Findus”, “paracarro”, “spalla”, negli anni in tanti si sono divertiti a deriderlo affibbiandogli ogni nomignolo possibile. Ma al di là della facile ironia, essere Valtteri Bottas dev'essere veramente frustrante; e bisogna ammettere che, probabilmente, la stragrande maggioranza dei piloti al suo posto non farebbe risultati migliori, o presumibilmente mollerebbe il sedile Mercedes per l’angoscia di essere etichettata perdente, perché nessuno vuole essere un eterno secondo. Bisogna quindi avere una tempra d’acciaio, una resilienza da acero finlandese per non farsi scoraggiare e perdere la motivazione, per lottare centimetro su centimetro, decimo su decimo, e prendersi qualche domenica di gloria a scapito dei detrattori, ai quali mandare un liberatorio «fuck you».

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A vederlo da fuori sembra un duro, sempre schivo e taciturno. Sobrio in ogni circostanza, forse timido, di sicuro lontano caratterialmente dall’essere personaggio al centro della scena come un goliardico Ricciardo, e completamente l’opposto di un Lewis, sempre a favore di telecamera. 

Insomma, è l’archetipo del finlandese freddo e taciturno, che sfoga i suoi glaciali sentimenti sui pedali di una monoposto da competizione come tanti prima di lui, da Hakkinen a Raikkonen; forse non arriverà mai a vincere il mondiale come loro, ma la sua velocità non è da meno e lo dimostra il fatto che se oggi guida la macchina migliore il merito è tutto suo.

Non un pilota pagante, non una carriera passata sotto l’ala protettrice di un team; Valtteri si è fatto da solo, prima imparando a guidare sulla neve e il ghiaccio nei dintorni di casa (se sai guidare su quel fondo, sai guidare ovunque), e dopo sgomitando e vincendo nelle categorie inferiori, arrivando a meritarsi la chiamata in F1 della Williams, per poi strappare sull’asfalto i galloni da capitano a Felipe Massa, non uno qualsiasi.

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Nel 2017 arriva l’occasione della vita, la chiamata di Toto Wolff che lo vuole a sostituire Nico Rosberg al volante della Mercedes. Con le frecce d’argento 16 pole positions e 9 vittorie, risultati altalenanti in confronto a Lewis, al quale però più di una volta ha coperto le spalle fino a sacrificarsi; vedi Sochi 2018 dove ha dovuto farlo passare al comando per ordine della scuderia, cosa che gli ha causato una frustrazione tale da pensare al ritiro, come ha rivelato nell’ultima stagione di Drive to survive. L’anno scorso è arrivata anche l’ombra Russell, a Sakhir, a prendersi la scena e a far pensare a tutti che un altro al suo posto avrebbe potuto buttare giù il re.

Poi però ci sono anche le soddisfazioni, prese rabbiosamente come la vendicativa vittoria dell’anno scorso a Sochi dopo un’astuta qualifica da terzo a trainare Verstappen, per metterselo davanti e sfruttarne la scia alla partenza dell’indomani. Vittorie da one men show come in Austria, sempre in testa dalla prima all’ultima curva. E sabati di qualifica gloriosi a testimoniare che il talento c’è, perché se non lo hai, non fai la pole a Silverstone e Imola.

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Eppure, le critiche si sprecano e pesano come macigni su Valtteri, che per quanto sia possibile se le lascia scivolare addosso e continua a lavorare a testa bassa, da proletario fino al midollo, lottando sempre e comunque per portare a casa il massimo. Perché c’è chi nasce baciato dalla dea del talento e chi come lui deve sgobbare il doppio per arrivare al livello degli altri.

E allora non si può che provare un po’ di tenerezza per uno che arriva sempre dietro il fenomeno di turno, di compassione per chi come lui si è trovato a trascurare i successi personali per il bene della squadra. Perché in fondo ognuno di noi almeno una volta nella vita è stato Valtteri Bottas: qualcuno di normale, un eterno secondo, caparbio e tenace che mette tutto sé stesso per provare a fare qualcosa di speciale.

Questa stagione rappresenta forse la sua ultima chance per diventare campione, ma che ci riesca o meno, certamente Woodman tornerà a casa tra saune, foreste e laghi ghiacciati con l’umiltà che l’ha sempre contraddistinto, preferendo il silenzio al clamore.

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