I codici della guerra e i codici dell’amore, la bellezza del gesto umano che riconcilia le persone con il fatto di avere un corpo, l’essenza estetica e l’esperienza (dello spettatore) che rasenta lo spirituale, cinestetica e metafisica: era il 20 agosto 2006, David Foster Wallace aveva 44 anni, Roger Federer 25 e aveva vinto nei dodici mesi precedenti US Open, Australian Open e Wimbledon – rispettivamente contro Agassi, Baghdatis e Nadal – e il New York Times pubblicava un ritratto quasi mistico del secondo scritto con la magnetica ispirazione del primo in cui c’era tutto questo, un’opera d’arte replicata, successivamente, in centinaia di patetiche croste. “Federer as religious experience”, Federer come esperienza religiosa, s’intitolava, magari filologicamente impreciso, ma non scherziamo: si volava altissimi.
Ecco: Foster Wallace è morto nel 2008, Federer ha annunciato ieri l’addio – accadrà la prossima settimana dopo la Laver Cup a Londra – e sono in tanti ora a non sentirsi molto bene, persino coloro che lo devono raccontare, perché quando un fenomeno si ritira a 41 anni significa che di lui è stato scritto praticamente tutto, con i toni aulici degli aedi e con il rigore degli analisti, con il piattume degli scrivani e con gli epinici di coloro che ne hanno cantato le vittorie, con l’amore dei fedeli e pure con la fiele di quelli che hanno sempre preferito il mito suo coevo, Rafa Nadal, il bello spagnolo muscolare, recordman del quale Federer è stato l’amico-rivale necessario alla mitopoiesi di quello dei due che avrà anche vinto di più ma non ha incarnato la perfezione.
La grandezza di Roger Federer non può essere relegata alle vittorie, agli Slam, alle finali. I numeri parlano ma sono freddi, asettici, illustrano la realtà – e lo stesso fanno le classifiche di Forbes secondo cui è il tennista che ha guadagnato più di sempre: oltre un miliardo di dollari in 24 anni di carriera, roba per una manciata di eletti – ma non evocano null’altro che la competizione terrena. Lo svizzero e il suo tennis hanno rappresentato il mondo delle idee, empireo e grazia, appunto i Federer moments di Foster Wallace: trasponete la Scuola di Atene di Raffaello al tennis e lo svizzero vi apparirà con l’indice al cielo e le fattezze di Platone. Nella scena c’è il mondo, ma i due al centro vi rubano l’occhio ed è uno quello che vi rapisce. Su, basta così, che il rischio della patetica crosta è prossimo.
Gli annali parlano di venti Slam e un oro olimpico, di 103 titoli, di 1251 vittorie su 1526 incontri, di 310 settimane da numero uno del mondo, ma in questo ritiro imminente c’è anche un aspetto generazionale a fare sensazione. Per quanto Federer abbia rappresentato, anche per una questione di longevità, un fuoriclasse capace di attraversare il tempo, lo svizzero è un altro dei miti della generazione X (e della prima decade dei Millennials) che abbandona, all’età sportiva del venerato maestro, nell’arco di un biennio che è una Spoon River vivente di inimitabili che lasciano. Federer come Valentino Rossi, come Serena Williams, Federica Pellegrini; e via via altri protagonisti quali Kimi Raikkonen, Andrea Dovizioso, Aldo Montano, Wayne Rooney, Arjen Robben e altri che nell’elenco mancano. Gente, s’invecchia: non è col passatismo che si tengono in campo e in pista i campioni (Buffon, Ronaldo: tenetelo a mente). “Conosco le capacità e i limiti del mio corpo e ultimamente i segnali sono stati chiari”, ha scritto Federer nel suo comunicato di addio, “mi mancherà tutto ma allo stesso tempo c’è molto da festeggiare”. E infine: “Al gioco del tennis, ti amo e non ti lascerò mai”. Amore corrisposto, ovazione, memoria eterna, ma attenzione: sotto con il prossimo, perché lo sport è così. E meno male.