C'è una cosa che Roger Federer ha e che nessun altro nella storia del tennis avrà mai. Non è il tweener sempre pronto, il colpo tra le gambe che per anni ne ha identificato il tratto più spiritoso di un gioco austero. Non è la tecnica, la serietà, l'eleganza di un tennista puro. Tra dritti e rovesci, dentro quell'oceano senza scampo che è un campo da tennis, Roger Federer ha qualcosa che manca. Ciò che possiede, che nessun altro avrà mai, è proprio quello che non è mai riuscito ad avere.
Il tennis è lo sport del Diavolo, o almeno così ha detto Paolo Bertolucci. E con il Diavolo devi saperci avere a che fare. Devi rispondere, attaccare, comprendere la complessità del gioco azzerandoti ogni volta. Come se la partita fosse sempre all'inizio e, allo stesso tempo, stesse cambiando continuamente. Con il Diavolo devi bluffare, dissimulare, nascondere.
E questo Roger Federer non l'ha saputo fare mai. Nell'epoca d'oro del tennis che ha dominato, al fianco dell'amico Rafael Nadal e di quell'avversario terribile che è Novak Djokovic, a Re Roger è sempre mancata la forza di raccontare una bugia. Quella che Rafa nascondeva nei tic in battuta e mascherava dentro la concentrazione fisica. Quella che Nole ha posizionato, ben visibile, dietro l'espressione di una macchina, di un robot che anche nei punti persi sembra sempre sapere che cosa fare dopo.
Una maschera africana che Roger Federer non è mai riuscito a indossare. Il suo tennis perfetto, disegnato come un'opera destinata a restare sul prato della sua Wimbledon, è bastato a proteggerlo. A renderlo grande, enorme, a far dire a David Foster Wallace che sì, Roger Federer è un'esperienza religiosa e niente vale il suo gioco. Non la fisicità di avversari più grandi, veloci, dinamici. Non l'arguzia di un gioco studiato a tavolino. C'è qualcosa nel gioco di re Roger che è semplicemente impossibile da spiegare, proprio come un'esperienza religiosa, e nella sua magia conserva ciò che gli altri non avranno mai.
Per questo la maschera, a uno così, non è mai servita. Negli anni incredibili del suo successo lo svizzero ha pianto, gridato, sudato più di quanto un uomo solo possa sudare in una vita intera. Ha stretto le mani della moglie Mirka, presenza costante nel suo angolo di mondo come in quello della tribuna di ogni grande torneo. Ha abbracciato i figli, uno per uno, quattro gemelli divertenti, impossibili da non notare. Ha ringraziato avversari sconfitti, abbracciato chi è riuscito a soffiargli finali, slam, record.
È stato, ed è tutt'ora, amico fraterno del suo più grande rivale, Rafael Nadal, che senza di lui oggi non sa bene che fare. Arriva a Wimbledon e non è abituato a non vederlo lì. Roger che anche negli anni più oscuri della sua carriera non ha mai rinunciato a mettere i piedi sul centrale di Londra. Roger che mancherà, in questo 2022, dopo 23 anni di indimenticabile poesia. E Nadal lo dice, come Ayrton Senna lo disse ad Alain Prost a meno di un anno dal suo ritiro: "Mi manchi, Roger". Ci manchi, a Wimbledon e altrove. Che senza di te non sappiamo più bene neanche che cosa sia il tennis.
Il ginocchio fa male, operarlo - operarli - non è bastato. I quarant'anni per un tennista sono la soglia dolorosa di uno sport che non lascia tregua, che logora il fisico e lo bastona con gli infortuni, continui, inaspettati. E tornare diventa sempre più complicato.
Ma Wimbledon resterà in piedi. Anche senza il suo re il prato sacro del centrale di Londra sarà arena di uno spettacolo che verrà ricordato, con o senza Roger Federer. Suona stonato, quasi non fosse vero. Come quelle cose che vengono dette per convincerci, ad alta voce, di poterle accettare. Ma Wimbledon resterà in piedi anche dopo Roger Federer, anche dopo 23 anni di lui. Come il calcio è sopravvisuto a Roberto Baggio, la Formula 1 ad Ayrton Senna. Come la MotoGP sta faticosamente cercando di sopravvivere a Valentino Rossi. Che lo canteremo nelle canzoni e lo rimpiangeremo e ameremo sempre come "da quando Federer non gioca più". Ma ce la si farà lo stesso, perché Wimbledon deve restare in piedi.