A terra, distrutto dal dolore, Alexander Zverev - per tutti Sascha - non sembra lui. Alto quasi due metri, biondo, giovanissimo e con la schiena dritta di chi ha talento e consapevolezza a reggere la spina dorsale come un busto in perfetta posizione, Zverev non è mai sembrato piccolo come a Roland Garros. Perché il dolore trasfigura i volti e quello che nasce dalla disperazione è il peggiore di tutti.
Un dolore che assegna un viso nuovo a un ragazzo destinato al grande tennis, agli Slam che sta inseguendo ma che non è ancora riuscito a vincere. Un dolore che abbiamo visto, in questo sport terribile e logorante, sul volto di ogni grande. Su quello di Rafael Nadal, suo avversario nella semifinale di Roland Garros, che degli infortuni ha fatto il tratto dominante di una carriera tanto vincente quanto angosciante. Su quello di Roger Federer che dall'ultimo dolore, a 40 anni compiuti, non si è ancora ripreso. Operazioni, riabilitazioni, stop ed rientri. Domande: tornerò quello di prima? Ha ancora senso tutto questo?
Eppure straiato a bordo campo, sporco di una terra rossa che quando ci finisci sopra sembra il sangue dei caduti, Zverev ha esattamente il volto del tennis. Perde il suo e assume quello di un lato conosciuto di questo sport che, nella sua brutalità, non assomiglia a nessun altro. Uno sport di finezza ed eleganza, di precisione e potenza, di solitudine assoluta ed enorme concentrazione. Uno sport di ossimori e contraddizioni, infinito, dove ogni punto deve essere una frase separata a cui riuscire a mettere un segno di punteggiatura, una conclusione. L'alternativa è semplice: soccombere agli errori.
Dove il tuo avversario è lontano, separato da una rete che non permette confronti e parole, ma il campo è un'arena vicina, tremenda. "Ti trovi là in mezzo, tutto solo, a combattere per ore fino alla morte sotto gli occhi di persone che mangiano panini al formaggio e chiacchierano di Borsa" disse John McEnroe, titanico nelle imprese di cuore, il più irruento di tutti quando di mezzo c'era la testa. Esempio perfetto di un mondo che ti chiede la capacità di piegarti, cambiare, modificare di continuo il tuo gioco per non soccombere. Ma che, quando tutto va bene, ti spezza e rimettere insieme i cocci diventa l'unica soluzione.
È una fotografia perfetta, nella sua disperazione, quella di Zverev a terra nella semifinale di Roland Garros. Rafael Nadal in piedi, lui che così - a terra come Sascha - ci è stato decine e decine di volte in carriera. Che lo guarda, pieno di un dispiacere fatto di troppe cose per poterne cogliere solo una: il dolore dell'avversario, la consapevolezza che un infortunio del genere richiederà tempo, troppo tempo ora che la stagione tennistica è entrata nel vivo, ma che un dispiacere che fa i conti con il suo passato, anche recente, e con l'egoistico desiderio di arrivare in finale, ancora una volta a Roland Garros, dopo aver combattuto come un leone e non costretto a guardare il suo avversario ritirarsi. Guadarlo come è stato lui, come dopo di loro saranno altri, piccoli e grandi. Vittime e carnefici di uno sport perfetto e terribile che non assomiglia e mai assomiglierà a niente.