La quadratura del cerchio. L’eleganza nella fatica. Il saltello diventato icona, facile, che di facile non ha mai avuto niente. Roger Federer come esperienza religiosa, diceva David Foster Wallace.
E non c’era niente di più vero. Quel saggio Wallace lo scrisse dopo Wimbledon 2006, perché una frase del genere, un concetto così, lo puoi tirar fuori solo dopo aver visto Dio vincere sul prato del centrale di Londra.
Quindici anni dopo quella vittoria storica di Roger Federer su Rafael Nadal, lo svizzero è ancora un’esperienza religiosa. Come il tennis, tutto il tennis, la pazienza di uno sport d’altri tempi, i cicli che passano attraverso i campi, come le qualità e i difetti di chi ci corre sopra. Terra rossa, cemento blu, erba verde.
Solo che Roger Federer oggi, come esperienza religiosa, richiede una fede che prima non dovevamo avere. Perde, suda, si stanca. Non è più Re Roger, il Dio. C'è ancora lì da qualche parte, anche in sconfitte che non siamo abituati a vedere. C'è un Federer anche nella delusione dei quarti di Wimbledon dove ha perso tre set a zero, portando a casa il suo primo 6-0 in carriera nello Slam di Londra. C'è, solo che non ci piace. E' il dolore di chi Roger non lo riconosce nelle sconfitte.
Assomiglia a Valentino Rossi, questo Federer. Campioni destinati a una parabola decrescente perché incapaci di ritirarsi, di allontanarsi dalla competizione di cui si sono nutriti per tutta la vita, e così facendo costretti ad accettare la fase calante di un impero sportivo che sembrava impossibile da fermare.
Le critiche a uno potrebbero essere le critiche all'altro, e le delusioni degli appassionati finiscono per assomigliarsi tutte: non ha mai perso così, che tristezza, che agonia, non sembra lui, non si diverte neanche più.
Giusto? Sbagliato? Il giornalista Giorgio Terruzzi, parlando delle critiche che colpiscono giorno dopo giorno Valentino Rossi, è solito ripetere come un mantra "non si sputa nel piatto in cui si è mangiato". Ci hanno fatto godere tanto, oltre ogni confine, ci hanno mostrato la perfezione dello sport e la grandezza di un'emozione, e questo basta per sopportare ciò che oggi alcuni considerano un oltraggio.
Che decidano loro, quando dire basta. Che capiscano da soli quando perdere sarà diventato insostenibile e quando il divertimento avrà lasciato definitivamente il campo, o la pista che sia.
E noi? Noi godiamo della loro ostinazione, soffriamo delle delusioni. Viviamo tutto finché ci regaleranno la possibilità di farlo. Soffrendo sì, ma comunque provando qualcosa. Perché quando smetteremo di farlo sarà davvero dura.