Come Valentino Rossi, che continua a correre nonostante il peso dei suoi 42 anni cominci a farsi sentire. Come Kimi Raikkonen, in pista con piloti nati nell’anno del suo esordio in Formula 1. Come tutti i grandissimi numeri uno, che scegliendo di non ritirarsi all’apice della carriera hanno accettato di convivere con la fase decrescente della loro parabola sportiva.
Come loro, così è Roger Federer. Semplicemente King Roger, per chi nel tennis ci ha messo piede e per chi l’ha visto giocare nei suoi giorni migliori, almeno una volta. Per tutti, solo il Re. Lui che non sembra sudare mai, che quasi non corre, l'esatto opposto del suo rivale di sempre, Rafael Nadal, sanguigno e fisico nel gioco come nella vita.
Non sembrava avere fragilità Roger Federer: anche quando perdeva, quando non era lui il numero uno del ranking mondiale, restava il simbolo di un concetto che gli ha dato quel soprannome e che per 237 settimane consecutive lo ha mantenuto sul tetto del mondo.
Otto volte campione di Wimbledon, il più vincente di tutti i tempi, 1242 successi nel singolo, 103 tornei portati a casa, di cui 20 Grandi Slam. E, se questi numeri non bastassero a descriverlo, in questi giorni uno si aggiunge agli altri: 401 giorni di stop, finiti a Doha con il ritorno in campo del quasi 40enne re del tennis internazionale.
Era il 30 gennaio 2020, l’ultima volta che lo svizzero è sceso in campo. Semifinale di Melbourne, contro Djokovic, l’uomo quasi impossibile da battere, quando si parla di Australian Open. Non c’era la pandemia, lo sport ancora non si era fermato. Da lì un mondo diverso, per tutti e anche per lui: due operazioni al ginocchio destro, un recupero che da facile si è trasformato in quasi impossibile.
Un'impresa che sembrava destinata ad inghiottirlo, alla sua età, ma un cerchio che è riuscito a chiudere, presentandosi a Doha, per il suo primo torneo del 2021. Sarebbe dovuto tornare in tempo per gli AO ma ha scelto un torneo più piccolo, con meno pressioni, per testare il suo livello. Per capirsi, per accettare la ripartenza.
A quarant’anni, dopo una vita da numero uno, Roger Federer si presenta a Doha perché altrove sarebbe un suicidio. Lo dice senza vergogna che gli avversari di sempre, Nadal e Djokovic, per lui oggi sono inarrivabili. Anche i giovani però sono diventati una sfida difficile, e lo sa bene. La sua partita è solo contro se stesso “perché ritirarmi non è mai stata un’opzione per me”.
Lo è stata per i giornalisti, per i colleghi che pensavano di non rivederlo in campo, ma mai per lui.
"Voglio poter andare in bici, sciare, correre e giocare a tennis senza dolore. Non sentirmi un uomo rotto per me è importantissimo. Riesco ad allenarmi per tre ore e mezza al giorno per cinque giorni di fila. Sarò competitivo? Me lo chiedo anche io. Lo scopriremo, per ora mi basta essere tornato”.
Non lo dequalifica, questa fragilità. Ma lo esalta. Perché anche The Swiss Maestro è umano, anche lui deve ripartire nella vita. Giocare con i suoi quattro figli (due gemelle femmine e due gemelli maschi, una squadra da doppio misto che poteva capitare solo a lui), tornare in campo e rimettersi in discussione. Che sia solo per un paio di tornei o per altri anni a venire, importa davvero a qualcuno? Serve che Roger Federer vinca un altro Grande Slam per dimostrare di essersi meritato il trono in questi vent’anni di tennis?
No. Lui aveva bisogno di tornare, per non sentirsi un “broken man”, e il mondo dello sport aveva bisogno di salutarlo, prima del suo ritiro, così come un Re si meriterebbe. Altro che comunicato stampa in piena pandemia, come tanti si sarebbero aspettati dopo la seconda operazione al ginocchio. Roger Federer sul prato di Wimbledon, almeno un’ultima volta, a ricordare a tutti che la storia la scrive chi ha coraggio, anche delle proprie fragilità.